"THE GREEN INFERNO"

L'omaggio che il regista statunitense Eli Roth, con tanto di cuore “sanguinante” in mano, rende alla gloria dei "cannibal movie", con un film che è una lettera d'amore al genere. "The Green Inferno", un titolo che già ci dice tutta e ci trasuda tutto quello che dobbiamo attenderci, del 2015, lo possiamo riassumere con una semplice domanda: "c'è ancora sangue nel verde dell'Amazzonia?". Se parliamo, appunto, di "Green inferno", perchè il teatro dell'azione è sempre laggiù, lontano dagli echi della civiltà moderna, nell'Amazzonia più inesplorata, che nasconde verità inconfessabili, con le sue leggendarie tribù di mangiatori umani, pronti a papparsi ogni essere umano che passa... Il titolo è un chiaro omaggio al "falso documentario" del celebre "cannibal holocaust", l'opera omnia e capolavoro del massimo pensiero “antropofagico” di sua maestà cannibal Ruggero Deodato, ma non è questo film un remake di esso. Anche perchè il film in questione si ispira più a "Cannibal ferox" di Lenzi che a "Cannibal holocaust". Ma queste sono così di poco conto, perchè a noi interessa il tributo ai "cannibal movies" messo in atto, per fare una riflessione sull'esegesi del cinema d'effetto più sensazionalistico. Poichè è cosa risaputa, che l'orrore si combatte sempre con l'orrore stesso, quindi mostrare, attraverso il mezzo cinematografico, l'atroce, il raccapricciante ed il nauseabondo serve per esorcizzare la paura stessa. Così la violenza, che si esprime e si desacralizza proprio nella sua messa in scena, anche estrema e disturbante quando serve, per certi versi "pornografica" (mostrare tutto per non nascondere niente), che non lascia scampo, così da cercare l'effetto reale, straniante. Senza farsi troppe pippe e cadere in trappola del “politically correct”, il nostro caro Eli, devoto della dottrina di un cinema che non deve chiedere mai e mai scusa, ma anche colui che cerca il divertimento da filmazzo horror, ha realizzato un'opera sulla liberazione della carne e dell'orrore più viscerale: perchè, in fondo, "the green inferno" è un film di corpi umani pronti per essere scuoiati, spezzettati e serviti, di macellai e macellazione senza elemosinare in scene "splatter", anzi, frattaglie e sangue c'è le offre su di un piatto d'argento. Ed è un piatto ricco, per sfamare i fans più esigenti (come il sottoscritto) che da un film così pretendono certe cose, le più raccapriccianti possibili. Non c’è liberazione se non c’è crudeltà, potremmo pensare. E’ pensiamo bene. Ma è la liberazione, questa, del puro orrore, l’orrore come pathos che, nel film, si scatena tutto nella seconda parte, quella della pura antropofagia, senza licenze o remore, anche perchè, sappiamo che "uomo mangia uomo", ed è una metafora crudele, parossistica che l'essere umano uccide e mangia il proprio simile, così da mangiare se stesso... Ne faranno le spese di questa follia un gruppo di "ridicoli" attivisti ambientali, ecologisti della domenica che, partiti per l'Amazzonia con quella boria di chi si crede più ganzo e vuole cambiare il mondo incatenandosi a degli alberi (con tanto di ripresa via web dell'evento, of course!!!), per contrastare il disboscamento della grande foresta, si ritroveranno, dopo un disastroso incidente aereo, sperduti non come i bimbi di Peter Pan sull'isola che non c'è, ma come succulente prede per una tribù di sanguinari cannibali. E' interessante come Roth ridicolizzi questi attivisti, che, messi a nudo davanti a quel mondo da salvare con le unghie e le catene, dovranno, alla fine, riuscire loro stessi a salvarsi da quel loro mondo da salvare. Il che non è così facile. Non spoilero, anche perchè il finale è interessante, anche se, per me, troppo "accomodante", forse avrei preferito un finale più nero, estremo e per questo più “liberatorio”, ma sono gusti, non voglio criticare Roth, perchè ci ha fatto un bel regalo, l’omaggio sentito, dovuto per i fasti di un cinema ancora troppo ghettizzato, un genere che ci ha consegnato pellicole ormai iconiche, realizzate tra gli anni settanta ed ottanta, nel nostro paese: le citazioni sono tante, e non solo a Deodato o Lenzi, ma anche ai "minori", a tutti quei "cannibalici" nati dalla spinta, per accontentare la richiesta del mercato (mi viene in mente il folle "Zombi Holocaust" di Marino Girolami, "Schiave bianche - Violenza in Amazzonia" di Mario Gariazzo, "Emanuelle e gli ultimi cannibali" di Joe D'Amato, ma la lista sarebbe troppo lunga, includendo anche strani epigoni come il necrofilo e meraviglioso "Antropophagus", sempre diretto dal grande Massaccesi/D’Amato ). Così, se la prima parte (di una quarantina di minuti) rischia di non appassionare più di tanto, ma serve per riscaldare "concettualmente" la storia, dalla seconda, con l'entrata nell'inferno verde, siamo ripagati dell'attesa: l'escalation di violenza è senza freni, con l'arrivo al villaggio dei nostri "buoni samaritani", ed ecco che lo "splatterone" esplode in un tripudio di carneficine e banchetti antropofagici di primissimo livello, davvero, da applausi. Ma oltre agli effetti "gore", ciò che emerge è un'aria pessimista, tesa e tagliente, che non lascia mai speranza: sappiamo già dall'inizio del film come andranno le cose, perchè la storia è come già scritta. Quindi, non ci sono mezze misure, visto che gli eventi devono andare seguendo un copione, tragicamente, senza se e senza ma. Il destino di questi ragazzi è già scritto, devono "per forza" finire nelle mascelle dei signori cannibali, perchè così e scritto nel verbo cinematografico: in fondo Eli Roth è un inguaribile pessimista, o, meglio dire, un ottimistico pessimista, sa che l'uomo difficilmente può salvarsi, ed allora non gli resta altro che mangiare se stesso ed i suoi simili, farsi così una bella scorpacciata...

Ma "The Green inferno" colpisce anche per la provocazione allegorica di alcune sequenze, per quel saper giocare sadicamente con il corpo e le sue "necessità" fisiologiche: così la scena della masturbazione ad opera dello sgradevole capoattivista Ariel, davanti ai suoi compagni per sfogarsi dallo stress, mentre sono prigionieri, e ancor più forte e rigettante la "cagata" di una delle ragazze, anche questa fatta senza remora, davanti a tutti, non solo sono di una forza tanto fastidiosa quanto sublime, dimostrando il talento coraggioso di un regista che, con ironica crudeltà che lo ha sempre contraddistinto, già dai tempi di "Cabin Fever" ed in particolare dei primi due "Hostel", sa toccare le corde giuste per scatenare la discussione cinefila, ma assumono un significato preciso: perchè l'uomo non è soltanto fatto di carne, sangue e frattaglie, ma anche, se non soprattutto, di sperma e merda....


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Raffaello Becucci