"NON APRITE QUELLA PORTA (The Texas Chain Saw Massacre)
E' una pietra miliare del cinema indipendente statunitense, uno degli horror "obbligatori", punto di riferimento per un fenomeno… "Non aprite quella porta" (The Texas Chain Saw Massacre) , del 1974, diretto da Tobe Hooper, alla sua seconda regia, è un titolo che pare scontato nel volerne ancora scrivere e parlarne, ma non è così: un piccolo, grande film, girato con pochi, pochissimi mezzi, ma uno di quei film fondamentali: perchè dalla sua uscita la storia del genere è cambiata, l’horror si è sempre più legato allo slasher, sull’idea del mostro sociopatico, sporco e violento oltre ogni misura, insomma il classico serial killer che, da li in poi, diventerà una regola di un certo tipo di cinema. Già, perchè discutere su “Non aprirte quella porta” (che per noi sarà sempre legato a questo titolo scelto, invece, la traduzione dovrebbe suonare “il massacro della motosega in texas”),significa ancora rimarcare il valore di opera cardine della fenomenologia orrorifica, per un film avvolto da miti e leggende, teso e allucinato, violento e secco, capace di creare un’analisi che dal terrore della forma arriva all’orrore dei contenuti. Difatti, la sua influenza, l’ondata scaturita dopo l’uscita, stile effetto “domino” è stata devastante, per reazione, ha suggestionato l’immaginario del pubblico, eccitando fino all’orgasmo (nel senso di piacere orrorifico, si intende!) noi cinefili. Almeno per il sottoscritto, la visione di questa pellicola è un rituale a cui non posso sottrarmi, uno di quei “classiconi” che, ogni qual volta mi trovo a confronto, mi riserva sempre intriganti letture sul tema, ed è, soprattutto, una di quelle opere cardine, che mi ha portato ad amare un genere come l’horror (anche in tutte e sue dervazioni e deviazioni possibili). Qualcuno potrebbe dire che un certo alone maledetto, per tematica trattata, l’abbiamo potuto vedere nel bellissimo film di Wes Craven “L’ultima casa a sinistra” del 1972, ed è vero, non c’è discussione, ma Hopper affonda ancora più le dita nella piaga malata. Quindi, non esagero, se per questo film scomodo il termine "capolavoro", perchè lo è, quindi...
La storia parte da una data precisa, che non lascia scampo: 18 agosto del 1973. Siamo nell'assolato Texas, in uno dei territori più estremi, marginali, della provincia persa e dimenticata da Dio… La vicenda narra le "disavventure" di cinque ragazzi, in viaggio su di un pulmino. Tutto fila liscio, nella torrida estate di un giorno come tanti, fino all'incontro, lungo la strada nei pressi di un mattatoio abbandonato, con uno "strano" autostoppista, che riuscirà a deviare i piani dei nostri giovani, portandoli tra le grinfie di una famiglia di sadici assassini e cannibali. Ovviamente, l'esito sarà dei più nefasti, in un crescendo atroce quanto violentissimo...
Ma il film è entrato nell’immaginario grazie a lui, ovverosia "Leatherface" (Faccia Di Cuoio), uno dei componenti di questa "cordiale" famigliola, diventato a ragione tra le figure chiave del new horror americano. La sua presenza è ormai iconica: grosso e bolso, goffo nei movimenti, vestito quasi sempre con un grembiule sudicio di sangue, ed armato con la fedele motosega (con cui dà libero sfogo alla fame di corpi da uccidere ed affettare!!!), è noto per il vezzo di coprirsi il volto, tremendamente sfigurato da non si sa quale motivo, con le “facce” strappate dalle sue vittime. “Facies mortis”, con cui l'orribile “babau” si nasconde per svelare la propria mostruosità, non tanto (o soltanto) quella fisica ma, soprattutto, morale/immorale, così facendo non fa altro che esaltarla, seguendo una prassi che sa di teatro, di messa in scena spettacolare... Latherface incarna per ciò, nell'immaginario cinematografico, il sadico assassino, il "Mors te deum", letteralmente il “Mostro di Morte”, alienato psicologicamente (e fisicamente) dalle sirene del Male, che ha come obbiettivo solo quello di provocare altro Male, così, come dire, l’uomo sbrana altri uomini... Hooper si è ispirato, per questo personaggio, alle gesta del serial killer Ed Gein, "il macellaio di Plainfield", che, appunto, aveva l'abitudine (così si diceva) di mascherarsi con la pelle delle sue vittime. La storia ci insegna sempre e comunque, quindi "Faccia di cuoio" lo possiamo, anzi, lo dobbiamo osservare come una complessa metafora, l’alienato disturbato ed incline alla violenza che si potrebbe celare dietro la porta del nostro vicino di casa, una sorta di orrendo figuro, brutto, sporco e cattivo che appare, proprio quando meno te lo aspetti, sempre per farti la pelle (in tutti sensi). “Non aprite quella porta” ci racconta della paura che prova l’uomo nei confronti dell’uomo stesso? Non spoilero, anche se ormai è una di quelle pellicole patrimonio di tutti, e per chi non lo abbia mai visto (sacrilegio!!!) lo consiglio visto che è uno di quei classici "necessari", oggetti di formazione per chiunque si interessi della settima arte, in particolare per gli amanti del cinema “exploitation”: vorrei ribadire, non è un film per tutti, la violenza, supera molti limiti, anche se la ferocia è più di sottopelle... Per questo la visione ci lascia addosso qualcosa di insostenibile, accentuata da una fotografia sporca, ricercatamente "rozza", che evidenzia il senso di morte, e ripugnanza ad ogni fotogramma. Riassumendo, possiamo sintetizzare che è un film fatto di carne e paura, mi verrebbe da dire “timor mortis et cibum”, dalla carne che si mescola all’orrore più disinibito, e che puzza maledettamente, in maniera fedita: soprattutto colpisce il modo con cui Hooper metta in scena una storia nei suoi eccessi, in cui aleggia sempre un sentore di putrido, di necrofilia e "decomposizione". Tutto ciò utilizzato per comprendere il male nel suo significato più profondo e malato. Nessun film si era forse spinto tanto lontano...
Come già scritto, la storia racconta di follie omicide che avvengono sotto il sole rovente del Texas, ispirandosi a reali fatti di cronaca nera, così da aprire una critica sociale su di un mondo provinciale, perverso e bigotto, una sorta di inferno sulla Terra, dove i diavoli torturano ed uccidono non più con i forconi, ma con le seghe elettriche. Il tutto, poi, è condito con quel tocco di sadismo grottesco, segno stilistico che il regista poi accentuerà nei suoi lavori successivi (ed in particolare nel corso degli anni ottanta, pensiamo al sottostimato seguito di questo, quel “Non aprite quella porta - parte 2”, del 1986, che molta critica vuole gettare dalla torre per l’eccessivo, frastornante humor nero e per certe deviazioni pop, ma che resta, alla resta dei conti, una delirante messa in scena di un horror ormai perso sulla via di Damasco!!!). Tod Hooper era uno che sapeva pizzicare le corde giuste, quelle più scomode, perchè sapeva che solo così poteva affrontare e scatenare reazioni forti, accendere riflessioni scomode, visto che in fondo in “Non aprite quella porta” c'è una critica alla provincia americana e alle sue "maledizioni", dai risvolti sociali e politici di una nazione che vive spesso di forti contraddizioni. Perchè al centro c'è la storia di una famiglia disfunzionale, sociopatica, devota alla violenza più raccapricciante e gratuita, dall'altra, le vittime designate da chissà quale destino, un gruppo di ragazzi caduti nella loro trappola, come prede tra le grinfie di famelici e spietati predatori. Se ci pensiamo bene, sembra tutto scritto, ed in parte lo è: perchè questi giovani ragazzi non sono altro che dei corpi, pronti per essere sacrificati…
Ma il film di Hooper, malgrado quello che potrebbe sembrare, non è particolarmente "gore": il sangue c'è, ma mai troppo, soprattutto mai fine a se stesso. Certo, è uno "slasher" in piena regola, ma i risvolto di critica socio/antropologica lo rendono un film che apre nuove strade al genere. La violenza è messa in scena per comprendere la natura di un disagio, come detto: è l'horror che fa pensare, che infonde paura, perchè è ciò che pretendiamo, ciò che vogliamo, per costruire una rifessione su di essa, perchè solo così la possiamo esorcizzare. Per questo, "faccia di cuoio" è diventato un icona dell'orrore postmoderno, ed il film un cult venerato e idolatrato, aprendo, come già detto, ad una moltitudine di seguiti, remake, prequel, imitazioni, citato ed omaggiato a più non posso (fra i tanti, menziono David Schmoeller con il suo “Horror puppet” del 1979, e Rob Zombie con il suo film d'esordio, come regista, "La casa dei 1000 corpi" del 2005).
E’ malgrado tutto, non possiamo che restare turbamente affascinati da un personaggio come “Faccia Di Cuoio”, sempre disposto a squartare uomini e donne (seguendo tra l'altro la volontà imposte dai suoi familiari, ed è questo l'aspetto forse più significativo della pellicola, il seme della questione Hooperiana: dimostrando che il vero assassino, la mente del piano criminale, non è il singolo mostro, che resta quasi una vittima sotto il peso del male, ma la famiglia, che utilizzano “Leatherface” per compiere le loro nefandezze), così che la sua ingombrante presenza, ogni volta che appare, tanto aggresiva quanto frastornante (pensiamo solo al treendo inseguimento notturno, una delle sequenze emblema del film da leggere come un’allegoria di sesso orgasmico all’ennesima potenza, con Leatherface che cerca di violentare una delle giovani ragazze, rinconrrendola con la sega elettrica, tesa ed in “erezione”…) ci intriga e disturba anche alla millesima visione, perchè, ammettialo senza falsa retorica, e senza buonismi, siamo stregati, ed invaghiti dai cattivi cinematografici. Ho già scritto sul significato della maschera e del "mascheramento", dell'essere umano che si nasconde per mostrare la sua anima più raccapricciante, così da porre in luce la sua “veritas” malefica ... E Leatherface ispirerà con la sua presenza molte letture ed interpretazioni sulla figura del serial killer (sconodando un’altro dei miei cult personali, datato 1978, “ Halloween - La notte delle streghe” dove Carpenter dirà la sua con il misterioso e spettrale mascherato Michael Myers). Insomma, si potrebbe scrivere un trattato su questo capolavoro, ma non basterebbe. E allora, gustiamoci questo atroce quanto sublime viaggio in un Texas che brucia di orrori, come se ci trovassimo nel peggiore dei gironi infernali.
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