"VIRUS"
Quando i difetti, per uno stranissimo gioco del destino, si trasformano nei pregi, ecco che allora un film può essere sì un film “brutto”, ma diventare anche uno strano oggetto del desiderio. Ci appelliamo ad una definizione, "so bad it's so good!", letteralmente “così male ma (anche) così buono”, si parla di un brutto film, certo, ma non un film brutto. Il confronto su ciò che è pregevole o sgraziato, di qualità o scadente, su quel filo sottile (e teso) tra arte ed il suo opposto, così l’ossimoro è servito, l’importante sta nel riscoprire, dal sottobosco cinematografico di opere ed omissioni, certi film, capaci davvero di accendere il dibattito. Ed, allora, accendiamolo…
La mia curiosità onnivora, la passione che nutro su certe pellicole “minori”, di quelle che mi restano attaccate addosso, di cui ne ho una strana dipendenza, ecco, il “cinefilo randagio” non può sottrarsi nel comprenderne le ragioni, capire perchè l’orlo del baratro ci attira sempre come matti, perchè elogiare certe pellicole, riscoprirle dall’oblio di una storia che le ha rigettate. In fondo, un film brutto resta, e resterà sempre, un film brutto, ma l’attrazione sta anche nella repulsione, l’ossimoro: un film resta sempre un film, ma ce ne sono alcuni che nel tempo hanno assunto un’aurea, diventando strani oggetti del desiderio. Si parla di “cult”, almeno per gli appassionati di certe cose, quindi perchè non dedicare parole ed elogi su un regista come Bruno Mattei, soprattutto, scrivere un’appunto su quello che è la sua prima fatica horror, ovvero "VIRUS", datato1980. Qui Mattei, come era d’abitudine per il periodo, si è firmato con uno pseudonimo, Vincent Dawn (accontentando la richiesta produttiva, che voleva un altro nome e cognome rispetto a Jordan B. Matthews, con cui, in genere, celava le sue gesta da regista). Ora, malgrado una cricca di appassionati, a molti questo titolo dirà poco, o nulla. Siamo sempre alla ricerca del capolavoro perduto, è difatti con "VIRUS" (conosciuto anche come “VIRUS - L’INFERNO DEI MORTI VIVENTI”) ci troviamo di fronte all’opera-cardine di Mattei, del suo modo di fare (e vivere) il cinema. Cos’è, allora, “VIRUS”? Un delirante zombi/movie, quindi siamo nel cinema dei ritornanti, fra i tanti fatti e prodotti agli albori degli anni ottanta, in Italia. Un periodo fertile per le derive dell’exploitation, così, almeno su carta, la suddetta pellicola non presenta grandi peculiarità, però, c’è un’idea, folle e tremenda, che la riscatta. E’ un azzardo, ricordo che stiamo scrivendo su di un regista come Mattei, eppure la sceneggiatura, scritta insieme al fido Claudio Fragrasso, narra di una possibile soluzione al problema della fame del terzo mondo. L’elemento horror si mescola con derive fanta/apocalittiche, anche la verità si scoprirà col finale, cioè che dietro ad uno strano incidente in un complesso industriale situato in Nuova Guinea, con la fuoriuscita di un gas radioattivo che trasforma il personale di questo stabilimento in degli zombi antropofagi, c’è la creazione di un virus patogeno, capace di mutare gli esseri umani, una volta morti, nei più riottosi zombi che si siano visti. Così, nutrendosi delle loro carni malate, quindi “zombizzando” a catena, le popolazioni più affamate del pianeta si sarebbero potute sfamare.
Un “pastiche” fra generi e sottogeneri, per uno dei film tra i film più simpaticamente triviali mai concepiti, almeno in Italia (il 1980 è l'anno dei “cannibal movie”, il canto del cigno di un sottogenere, pensiamo soltanto ad “Antropophagus” di Joe D'Amato, “Mangiati vivi” di Umberto Lenzi ed ovviamente “Cannibal Holocaust” di Ruggero Deodato, ma è anche l'anno degli zombacci/vampiri di Umberto Lenzi e del suo “Incubo sulla città contaminata”, tanto per citare), che pesca a mani bassa da “Daw of the death” di Romero, ma anche da altre perle come “Zombi Holocaust” di Marino Girolami. Personalmente, “VIRUS” mi viene da associarlo alla pellicola cult di Lenzi (l’idea delle radiazioni), ma l’esito di Mattei è diverso, visto che il nostro era, come dire, un vorace predatore di opere altrui, che sgraffignava, saccheggiando idee, storie che poi incollava “ex novo” (alla meno peggio) nelle proprie pellicole, tanto per sfangarla, arrivando con pochi mezzi ad un risultato. Certo, per essere precisi, possiamo anche ammettere che il cinema è quasi tutto predatorio, di derivazione, un regista prende, elabora, trasforma, omaggiando, ma con Mattei, l’atto di predazione sembra più il gesto dell’azzardo, del riciclare: per esempio, “VIRUS” ricorda “Dawn of the death”, molto è stato scopiazzato dalla pellicola di Romero (anche la colonna sonora dei Goblin è stata gentilmente riciclata), quindi, se Mattei prendeva (scippando) a destra e manca, questo suo agire va visto dentro l’ottica puramente “alla Mattei”. Il film ci ricorda molte cose, molte cose sono state sgraffignate ma, curiosamente, non assomiglia a nessun’altro. Eccolo il paradosso, ma non così raro quando ci si occupa di un certo tipo di cinema: a forza di prendere e mettere, togliere per aggiungere, ritagliare e incollare, depredare per rivendere, Mattei tirava fuori qualcosa di personale. E’ il suo modo di fare cinema, nel bene o nel male. Facciamo un esempio: le scene di repertorio inserite. Questa cosa, da un punto di vista sia estetico che tematico, non può che richiamare i “mondo-movie”, quindi, l’idea di creare del sano shock con scene d’effetto, violente e “reali”. Il film fu girato in Spagna, ma la messa in scena (scarna) doveva suggeririci la Nuova Guinea. Come fare per rendere credibile qualcosa che non lo è? I mezzi sono tirati al risparmio, lo sappiamo, ed ecco il nostro Mattei, cineasta/rapace sempre a caccia, utilizzare furbescamente stralci dal documentario “Nuova Guinea, L'isola dei cannibali”. Tutto vero, l'Africa delle tribù antropofaghe, nei cadaveri veri esposti in bella vista, come feticci sciamanici, si legano agli scenari iberici, ma vediamo che sono innesti forzati. Ecco, lo stile, l’innesto Matteiano: c’è qualcosa che in tutto questo stona, qualcosa di tremendamente fasullo, perchè le sequenze rubate dal documentario, nelle mani di Mattei, sembrano ancora più false della già fasulla “Africa” spagnola. Scrivevo del difetto che si fa pregio, per un film così spudorato, grezzo, sempre sull’orlo di precipitare nel comico involontario, grossolano nella resa tecnica, eppure, ci piace. Vero e falso, è talmente vero il documentario, che innestato “forzatamente” nel film diventa una falsificazione, mentre per l’opposto (paradosso), il falso cinematografico si fa stranamente credibile, come, ad esempio, i morti viventi. Ridicoli nel loro essere sporcati di farina, ansimanti e flemmatici, quanto grezzi e repellenti, si fanno credibili nella loro palese incredibilità, come i “defunti” nel documentario shock, in un cortocircuito visivo/sensoriale, visto che è talmente sopra le righe tutto, la messa in scena, i trucchi, la recitazione, che alla fine questi errabondi ritornanti ci sembrano l’unica cosa realmente possibile…
Ma chi è stato, in fin dei conti, Bruno Mattei/Vincent Dawn? Prima di dedicarsi alla regia, nei primissimi anni settanta, è stato un valente tecnico, di quelli che si possono definire “tuttofare, per poi farsi le ossa come montatore (“una regia a posteriori”, la definiva). Queste notizie si leggono nei suoi stralci biografici, brani che mi appunto anche per capire la formazione di un autore, la sua storia, le sue ragioni. Siamo davanti, quindi, ad uno che il cinema lo conosceva, che si era formato “dal basso”. Lo sapeva fare, anche se nei limiti di tutto, ma riguardando con attenzione un film come “VIRUS”, certe cose emergono. Certo, il vecchio Mattei era, per sua stessa ammissione, un regista di serie zeta, di opere da due soldi, dirigeva film solo per fini alimentari, sembrava quasi voler fare dei filmacci per ricevere le più sonore stroncature. Eppure, proprio per questo che mi intriga. Scrivendo dell’attrazione/repulsione: così, quando si visiona “VIRUS”, occorre stare al gioco, seguire le regole e la dottrina di Mattei, perchè malgrado certe letture malthusiane, dietro ad un pessimismo da fine del mondo (l’idea di un’ Apocalisse da Vangelo secondo Mattei), resta un “divertissement” per noi amanti del miglior (peggiore) horror/trash. Ed è trash, come dire, ammirare la bellissima Margit Newton, nel ruolo di una fotoreporter francese, la quale, non sapendo bene per quale cavolo di logica d’antropologia, inizia a svestirsi, per poi dipingersi la pelle con tribalismi da indigena (questa sequenza ne ricorda una similare, con Laura Genser, di un altro meraviglioso “pastiche” cinematografico che è “Emmanuelle e gli ultimi cannibali” di Joe D’Amato, del 1977), oppure vedere Franco Garofalo (Frank Garfield), nel ruolo del militare Zandoro, fuori come un balcone, che si agita, facendo le boccacce, mentre è assalito da un branco di flemmatici ritornanti, infarinati come cotolette, e lui, in preda ad un delirium personale, gli provoca e si offre come fosse un galletto allo spiedo... Ma le sequenze “d’antologia” sono tante davvero. Ecco, “VIRUS” è tutto questo, ed è così scalcinato, ridicolo, spudoratamente imbarazzante, ma anche sporco, reietto, pieno di colpi bassi ( lo splatter abbonda, riempie gli spazi, con tanto sangue e frattaglie fintissime, visto che gli effetti visivi sono quello che sono, ma anche in questo sta il suo fascino), così che, per difetto, anzi, grazie a tutti i suoi sacrosanti difetti, non possiamo che adorarlo.
Come detto, il cinema sta anche nella contraddizione, nell’ossimoro. In fondo, Bruno Mattei era l’ossimoro…
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