Sic volvere parcas

Dai racconta, gli fece Mario. Dette un filo di gas in folle, il motore rombò. Aprirono i finestrini, si crepava dal caldo. Un’estate micidiale, dicevano al telegiornale. Una lunga ondata di calore che non sarebbe scemata prima di settembre. Per fortuna i vecchi moriranno come le mosche, diceva il babbo di Mario indicando la suocera e ghignando quasi senza più denti. Ingranò la prima e fece partire il mostro rombante con delicatezza, da vero esperto. La città era vuota. Deserta. Il sole picchiava come in un western. Ma nulla, iniziò Daniele. Aveva osservato in silenzio i movimenti sicuri dell’amico. Non ce l’ha l’aria condizionata questa bestia? Chiese. Mario fece cenno di aspettare. Racconta, insistette. Daniele rise ancora, ripensando alla scena della notte scorsa. Aveva fatto un paio di mesi di turni di notte in un alberghetto pulcioso per pagarsi le vacanze, anche se era quasi agosto e ancora non avevano deciso dove andare. Allora, gli disse, verso l’una c’erano tre o quattro neri che parlavano nella piazzetta davanti all’entrata. Belli grossi, con ancora appresso i borsoni pieni delle stronzate che vendono. Ma non facevano niente, parlavano e basta. Poi arrivano quegli altri, anche loro in tre o quattro, forse di più. Ma sì, erano di più. Ma non tanti. Erano ubriachi, barcollavano e cantavano. Appena vedono i neri cominciano a infamarli. Ma così, dal nulla. Negri negri, gli dicevano, e si avvicinavano, con le bottiglie di birra in mano. I neri si sono zittiti e gli si sono fatti incontro. Vabbè, il resto lo sai. Io ho chiuso il portone e ho guardato la rissa. Poi sono arrivati i carabinieri e hanno portato via solo i neri. Risero. Non gli hai detto niente? Chiese Mario. Chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni, rispose l’amico. Mario si fermò a un semaforo rosso, imperioso, inutile, un cancello nel deserto.

Il signor Sergio Vitale uscì appoggiato al bastone. Si soffermò a osservare un manifesto di un gruppo di estrema sinistra attaccato  al muro sotto casa sua. Era stato attratto più che altro dal contrasto dei colori. Non era mai stato di sinistra, ma non perché fosse stato di destra: la politica non lo interessava. In realtà erano sempre state assai poche le cose che lo interessavano. Era riuscito a passare indenne perfino dalla guerra e dal dopoguerra, come se gli eventi non lo notassero. Come se fosse trasparente. Durante il boom economico aveva trovato un impiego statale e se lo era tenuto fino alla pensione. Non si era mai sposato, non aveva figli, non aveva amici intimi. Si spinse gli occhiali spessi contro il naso sudato e si avviò verso il fruttivendolo. Poi sarebbe andato dal fornaio. Come tutte le mattine. Non sembrava neanche troppo provato dall’ondata di caldo. Ne aveva viste di peggio.

Si fermarono a un bar che faceva angolo e scesero per un caffè. Di chi hai detto che è, chiese Daniele all’amico, indugiando a guardare la macchina parcheggiata sotto al sole, che sembrava mandare lampi bluastri. Non ho capito, rispose Mario. Un ingegnere, un architetto, una cosa così. L’ha portata in officina per una revisione, mi pare. Un vecchio viscido con la faccia da pedofilo. Dici si offende? Risero ed entrarono nel baretto deserto. C’erano solo il barista morto di caldo e un tipo al bancone. Il barista aveva una faccia stanchissima, pareva non dormire da decadi. Sudava e ansimava. Mario ebbe come l’impressione che le borse sotto gli occhi pesassero come piombo, che lo trascinassero al suolo. Daniele guardava il tipo al bancone, magro come un chiodo, con gli occhi spiritati e i capelli lunghi e sporchi. Una specie di orecchino indiano gli pendeva dal lobo destro fino alla spalla scarna. Finirono in fretta i caffè e i bicchieri d’acqua e fecero per prendere l’uscita. Il tipo al bancone si piantò di fronte a loro e mise le mani aperte davanti alla faccia di Mario. I ragazzi si fermarono e il tipo fu come scosso da un tremito. Si sentivano solo le pale del ventilatore attaccato al soffitto. Il tipo riaprì gli occhi. I ragazzi filarono via.

Vitale rimase di sasso. Il fruttivendolo era chiuso. Non era mai successo prima che il negozio chiudesse in un giorno feriale. Il vecchio proprietario era anche lui un anziano e non andava mai in vacanza. Poi era morto e il negozio era passato al figlio, uno scansafatiche patentato, Vitale lo aveva inquadrato subito, e ora la saracinesca era abbassata e un cartello giallo sbiadito annunciava un tassativo chiuso per ferie. Si incamminò verso il fornaio lievemente intristito, scuotendo la testa.

Ma che voleva quel tossico? Ma diocristo li becco tutti io? L’aria condizionata era partita, in macchina ora si respirava. La regolarono quasi al massimo. Ti ha tipo… benedetto… azzardò Daniele senza guardarlo. Forse è una specie di sciamano, lo schernì. Ma benedetto cosa, rispose Mario alzando di un tono la voce. Ma sciamano cosa. Un vecchio tossico. Ma lo hai visto? Mangiato vivo dall’eroina. Ma fammi il piacere anche te, lo sciamano. Ma all’università ci vai per cosa se dici queste cazzate? Daniele la piantò lì, il suo amico era visibilmente turbato, anche se proprio non si spiegava perché mai desse tutta quell’importanza a un episodio tutto sommato divertente. Sarà nervoso per il caldo, concluse tra sé, sfiorando il finestrino che si stava freddando.

E se fosse chiuso anche il fornaio, pensò di botto Vitale. Sentì una specie di brivido e rallentò l’andatura, per poco non si fermò. Scosse la testa e riprese a camminare. Ma oltrepassò l’angolo senza notare fino all’ultimo momento utile la barbona che tendeva la mano. Perso tra i suoi pensieri gli apparve davanti come una visione, gobba e cadente, sdentata e coperta di stacci, con una busta di plastica in mano. La dribblò con tutta la prodezza consentita a un anziano leggermente claudicante e passò oltre. Ebbe l’impressione che la mano non fosse tesa come per chiedere, quanto piuttosto per indicare, ma appunto fu solo un’impressione, e comunque Vitale aveva già girato l’angolo. La vecchia sdentata tirò fuori un gomitolo di lana lercia dalla busta di plastica e spezzò un filo.

Guarda quella! Guarda quella! Oggi è la giornata degli scoppiati! Daniele aveva abbassato il finestrino per vedere meglio la barbona con il gomitolo in mano. Mario non diceva nulla, sembrava nervoso. Daniele si affacciò al finestrino. Oh, vecchia, li vuoi cinquanta centesimi, urlava, e se la rideva. Mario stava per imbestialirsi. Pensò ora prendo questo studentello per un orecchio e gli spiego come si sta al mondo. Pensò che stava sprecando l’estate. Che gli sarebbero toccati sole e mare e donne e che invece era in giro in una città deserta e bollente con uno che urlava dietro ai barboni. E piantala idiota! Gridò nell’orecchio all’amico, e inchiodò. Fissò la vecchia oltre il finestrino. Aveva occhi neri e fondi. Daniele non capiva che gli fosse preso. Andiamo al forno, gli disse mettendogli una mano sul braccio. Vediamo se ha fatto le pizze. Mario si girò, annuì, la macchina si mosse piano.

Vitale attraversò la strada. In giro non c’era un’anima. Le finestre dei palazzi erano sbarrate, gli abitanti chiusi in casa come topi per sfuggire le artigliate del caldo. Aveva il sole contro e la bottega del fornaio era sotto un cornicione, immersa nella penombra. Si coprì gli occhi per vedere ma l’eccesso di luce gli impedì la visuale. Avanzò ancora di due passi quando una macchina svoltò l’angolo e lo prese in pieno. Steso sull’asfalto alzò lo sguardo. Il fornaio era chiuso.

I ragazzi si guardarono con gli occhi sbarrati. Hai centrato un vecchio, fece Daniele che quasi non si sentiva. Mario farfugliò qualche mezza parola tra cui si capiva dottore, ambulanza, ospedale. Ma sei scemo, gli disse Daniele. Quello è morto, ha la testa spaccata. Andiamo via, non ci ha visto nessuno. Mario non rispondeva. Andiamo via! Gli urlò Daniele in faccia. Mario ingranò la retromarcia e dette gas dalla parte opposta.

Vitale si vide steso per terra. Qualcosa gli sfuggiva. Poi vide la vecchia ferma sul marciapiede col gomitolo in mano. Allora capì.

 

Filippo Rigli

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