Il racconto del 55mo Festival dei Popoli

Dal nostro inviato Simone Lisi, il racconto del 55mo Festival dei Popoli.

 

I - La conferenza stampa come atto mancato. 

Prima: la mattinata sperso nell'interland, cercando Lastra a Signa alla fine di Scandicci, ma là non era. Nella nebbia di novembre, sospettando che la giornata si sarebbe aperta, che poi sarebbe uscito il sole.

Dopo: la conferenza stampa del Festival dei Popoli come atto mancato. Arrivare là davanti, dopo la mattinata a cercare la Asl, entrare nell'Odeon e poi andarsene prima che tutto inizi, perché alle 13 comincia il mio lavoro. 

Scrivo due parole per oppormi alla dimenticanza, due parole per Stanza. Le scrivo dentro al mio bar di fiducia, aspettando di cominciare a lavorare, che la schiacciata di Signora Cocci esca dal forno. La conferenza stampa: con le giovani giornaliste vere, intraviste, e quelle sperse. C'era perfino Agnese che di sabato non aveva idea di chi io fossi. 

Qual è il mondo vero? Quello dentro il teatro, e quei discorsi che non ho fatto in tempo a sentire; o quello che degrada verso Empoli, nelle zone industriali, tra la nebbia, dove incontrare il fisioterapista Sabino? Quel cinema o questa pizzeria piena di adolescenti usciti ora da scuola? E poi di cosa parlano? 

Apro il computer e scrivo una piccola nota, dopo la conferenza stampa mancata di striscio, sono poi eoni, mentre la Signora Cocci di là prepara il mio pranzo e le pizze per Via dei Marignolli. Oggi è perfino senza il marito e io non oso immaginare come farà a reggere la prossima orda. Dov'è sparito il marito? 

Eccolo che arriva, con la bambina nella carrozzina e le borse della spesa. Così scrivo una riga ancora e mi fanno male le dita. 

Penso che la vita vera non sia questa né quella, ma entrambe: sono le stesse le mie dita che ora scrivono questo, che tra poco si contrarranno inserendo dati, e che prima si erano aggrappate alle poltroncine calde del teatro. 

 

II - L’uomo che guardava il film nel cellulare

L'uomo sedeva alcune poltroncine più in basso. Era arrivato in ritardo di almeno dieci minuti, accompagnato da una ragazza dal cappellino bianco che si era tolto solo come ultimissima cosa, una volta già seduta accanto al suo uomo e dopo aver domandato ad alcuni spettatori che guardavano il film se potevano scorrere di un posto. 

Io quindi ero già predisposto all'odio.

Poi lui, l'uomo che guardava il film dentro al cellulare, accendeva il cellulare in modalità video e si metteva a riprendere il film. 

Teneva appoggiato l'iphone sulla gamba, generando una luce che si proiettava sulla sua faccia e su quelle circostanti. 

Dopo alcuni minuti, delle persone vicino a lui chiedevano: «Scusa eh, ma che cavolo fai?». L'uomo che guardava il film sul cellulare diceva qualcosa che io però non riuscivo a sentire. La conversazione era andata avanti ancora un po', finché lui non aveva alzato il tono della voce e quello sì, ero riuscito a sentirlo distintamente: «Comunque non ci sono problemi». 

Cosa aveva voluto dire?

Così le persone che stavano dietro di lui investite dalla luce del telefonino si spostavano di posto, vinte dalla superiore retorica dell'uomo che guardava il film nel cellulare. 

Lo teneva inquadrato verso la parte in basso, mi rendevo conto in un secondo momento, e non in direzione dello schermo nella sua interezza. Allora mi convincevo che stesse riprendendo solo la parte dei sottotitoli, che fosse uno di quei benefattori che portano il fuoco dei sottotitoli nei film che si trovano su internet. E che fosse per quel motivo, per quel suo compito superiore rispetto a un semplice spettatore, che avesse convinto a spostarsi i suoi vicini di posto. 

Lo guardavo ogni tanto per controllare, per confermarmi mentalmente la mia teoria, e in effetti quando c'erano parti senza dialoghi lui si disinteressava completamente allo schermo e dava un bacio alla sua ragazza, un bacio con abbraccio e sguardi intorno, che gli altri vedessero bene che lui la baciava. Poi il dialoghi riprendevano e lui tornava alla sua missione.

Anche altri vicini dopo un po' se ne andavano, forse disturbati dall'attività dell'uomo che guardava il film nel cellulare, o per chissà quale motivo, forse non gli piacevano i film sui pirati.

Ecco, finalmente l'uomo aveva creato il vuoto intorno a sé e avrebbe potuto dedicarsi alle sue pratiche tranquillamente, ho pensato dedicandogli ancora un mezzo pensiero e sguardo tra le dita delle mie mani che tenevo a lato del viso, così da non poterlo vedere neanche di striscio. 

Ma poi, contro ogni aspettativa, l'uomo che guardava il film nel cellulare e la sua donna, si alzavano (lei si rimetteva il cappellino bianco ad annunciarlo) e se ne andavano abbandonando tutti gli sforzi di produrre cultura sovversiva e disturbo in sala.

Lo rivedevo ancora, o credevo di rivederlo, a uscita film, l'uomo che guardava il film nel cellulare si aggirava tra le persone fuori per strada, come me. Si guardava attorno, a vedere chi c'era e chi non c'era alla prima del Festival, come a celebrare l'evento sociale, il setting. 

Per fortuna la serata di inaugurazione era passata.

 

III - 3 e mezzo

Trama: Cantante punk polacca, dopo aver scoperto la propria omosessualità nell'isola di Ibiza, decide di organizzare un festival di musica in un piccolissimo villaggio serbo. Cercherà di coinvolgere tra i partecipanti anche il chitarrista newyorkese Johnny Tunder tramite la teoria dei sei gradi di separazione, salvo scoprire che il musicista è morto vent'anni prima per l'eroina di Iggy e capire che lui (Johnny Tunder) era il più grande.

Dalle cinque di pomeriggio del sabato alle undici e mezzo di notte a guardare documentari, poi le idee si erano un po' confuse circa la fine dell'uno e l'inizio dell'altro. Ne era uscita fuori una trama dadaista, un film lievemente incomprensibile, ma dolce.

Io sarei rimasto ancora, ma Silvia doveva raggiungere il suo scrittore al Caffè Notte, mentre Lapo aveva gli occhi secchissimi e una volta fuori continuava a guardare verso in basso, mentre gli parlavo, per cercare i sottotitoli. 

Io sarei rimasto ancora, per sempre, dentro a quei cinema, spostarsi da cinema a cinema, la vita come interruzione tra film e film, nutrirmi con una cannuccia o con kebab, ma di fretta perché tra mezz'ora ne comincia un altro. E lasciare tutti i problemi e le cose della vita fuori da me, per sempre. Un festival di cinema che durasse per sempre, circolare, in un piccolo villaggio di provincia.

 

IV - Dior and Lapo

Sul film di Dior che ho visto ieri non ho niente da dire. Ci ho pensato, ma non mi è venuto nulla. 

Ho pensato allora a un pezzo di costume, sul pubblico in sala, ma anche sui fashion blogger e le studentesse americane di moda non c'è niente da dire.

E' nata allora questa lista che vuole raccontare gli altri presenti in sala a cui ho domandato: 

Qu'est-ce que tu fais dans la vie? 

- Impiegati presso poste private cittadine 

- Blogger sommersi non retribuiti

- Imprenditori agricoli di padre tedesco

- Professori di scuola superiore esperti in Fiorentina.it

- Disoccupate iper-qualificate con curriculum su linkedin costantemente aggiornato 

- Iscritte a master on-line presso l'università Ca'Foscari

- Imprenditori del settore delle costruzioni e in particolari dei ponteggi tubolari

- Fisioterapisti pistoiesi con barbe

- Fotografi a partita iva presso prestigiosi studi fotografici con barbe

- Insegnanti di yoga con partita iva e lavoro di consulenza presso multinazionale americana non bene specificata

- Ragazze inglesi che lavorano presso il Polimoda con funzioni non chiarificate e praticano yoga in zona Palazzo Pitti

- Assistenti/consulenti buyer presso Luisa Via Roma originarie per uno strano scherzo del destino proprio di Roma 

- Giornaliste presso testate nazionali in città a trovare la sorella o forse per il Festival stesso

- Ballerine di danza moderna che una volta hanno ballato per Marina Abramovic

- Assistenti universitarie a Novoli

- Stagiste con lieve accento meridionale

- Guidatori di auto dai lunghi capelli e lunghe barbe maestri zen di domani

- Imprenditori nel campo farmaceutico originari dell'Aquila con barbe

- Calcianti storici di parte bianca

- Studentesse di cinema laureate al Dams di Bologna con tesi sul noir francese anni settanta 

- Ricercatori di antichi spartiti musicali ex abitanti di mansarde con barbe

- Fiorai con lunghe barbe

- Designer con lunghe barbe

- Curatori di festival di cinema con profonde e marcate occhiaie di espressione, e barbe

- Giovani cineasti hegeliani di origini pratesi

- Web developer/ musicisti di origine sud-est asiatica

- Ex servizi civili presso istituti di cultura cittadina a stampo religioso

- Insegnati di yoga americane di origini centro americane

- Comunicatrici

È tutto. 

 

V - S.T.

Al film di lunedì ho pensato a questo: che amo andare al cinema perché ci si può andare da soli e non ci si sente soli. Non è come andare a cena fuori da soli, non come abitare da soli, svegliarsi da soli, fare la colazione e prepararsi da mangiare per poi mangiare comunque da soli. 

Dopo un po', in ritardo come al solito, mi raggiungeva Silvia. Io le facevo un gesto con la mano. Non ero più solo, ma mi ripetevo ancora una volta il pensiero: come sto bene al cinema da solo. Prima dello spettacolo prendersi magari un orzo, leggere una fotocopia appesa al muro con due puntine, ascoltare i discorsi della gente (la moglie con il cappellino color vinaccia che riprende il marito colpevole di non capire il presente) e poi scegliere un posto, dovunque, dove più mi aggrada, scivolare da qualche parte, scrivere un messaggio, sbucciare un mandarino e poi sprofondare tra le poltroncine. 

Cominciava il film con quella citazione di Burroughs e dopo ecco l'arrivo di Silvia in ritardo, il mio gesto con la mano, di cui ho già detto, ma che ripeto perché è successo sempre identico non saprei dire quante volte nella mia vita.

Al film del lunedì ho pensato anche a questo: che questi sfigati del documentario, questi figli di un dio minore, hanno vinto. Non c'è partita per i film. Che come dice Ferruccio non si può più fare letteratura ma solo giornalismo: è il postmoderno bellezza! 

Lo so Ferro che non dici proprio così, ma concedimi la licenza poetica. 

E così questi documentaristi oggi sono i più fighi di tutti, un tempo camminavano rasenti ai muri, erano quelli che non avevano idee, che al tema libero a scuola non sapevano di che parlare. 

Oggi invece li si riconosce immediatamente a uscita film: sono alti, con un cesto di capelli riccioli e la sera prima come minimo erano al Milano film qualcosa. Utilizzano l'aggettivo: pindarico. 

In settimana presenteranno il loro medio-metraggio e ci salutiamo stringendoci le mani e dicendo: A giovedì! 

Allora io e Silvia ce ne andiamo verso il Caffè Notte con le nostre bici pensando: ma guarda questi registi di documentari, 'sti mezzi disperati: ti distrai un secondo e si prendono tutto. 

 

VI - Il matinée

Pessima idea andare al matinée dell'Odeon, saltando la visita con Sabino. 

E non solo perché il film scelto come scusa per evitare l'incontro con il medico era un film sulla nebbia; ovvero un mattone di documentario sull'irrappresentabile, con citazione finale di Rainer Maria Rilke. 

Pessima idea perché dopo mi avevano telefonato in rapida successione mia madre e mia zia Anna, la collega di Sabino, per sapere che fine avevo fatto e perché non ero mai arrivato al centro a fare la mia visita programmata da una settimana.

Io avevo farfugliato loro qualcosa, circa un'incomprensione mia, non aver capito bene la data e l'orario che invece ricordavo perfettamente e avevo aggiunto che non volevo disturbare Sabino, che mi sembrava di approfittare. 

In quelle due telefonate subite non non avevo avuto modo di far riferimento alla mia mattina alternativa, passata dentro al cinema quasi completamente vuoto a vedere quel film sulla nebbia - era pure una replica, un documentario senza trama dove ogni tanto comparivano dei personaggi altrettanto noiosi che facevano solo cose ripetitive. 

Era andata così: una parte del mio cervello sapeva che doveva andare a quella visita medica, ma si era giustificata con sé stessa dicendosi: non c'è modo che io vada oggi da Sabino, c'è quel film all'Odeon, l'imperdibile film sulla nebbia. 

Ma erano scuse valide solo per un dialogo con la mia mente. Mia madre e mia zia non se le sarebbero mai bevute. 

Così in quelle due telefonate non avevo fatto riferimento al mio abbandonarmi tra le poltroncine del cinema quasi vuoto con dieci persone al massimo e trasalire ogni volta che un vecchio si alzava barcollando dal suo posto per andare al bagno e la sagoma contro lo schermo illuminato di bianco nebbia sembrava quella di un trapassato. 

Non avevo fatto riferimento al senso di torpore dentro al cinema, a quel senso di benessere, di essere ancora nel letto caldo, e nessun riferimento a quell'erezione mattutina in quel posto deserto, e all'aver deciso di dedicare un pensiero ulteriore alla ragazza dei biglietti, che non aveva neanche guardato il mio accredito press, ma solo detto: Entra. 

Avevo omesso molte cose in quelle telefonate con mia madre e mia zia: neanche una parola circa quel latte condensato sulle poltroncine di velluto, non un accenno al senso del film, niente sul significato delle parole di Rainer Maria. 

Ovviamente non avevo fatto neanche mezza parola sul non aver fatto nessuno degli esercizi prescritti da Sabino, e mi ero guardato bene da raccontare al telefono che le pasticche non le avevo preso per niente - ne avevo prese 4 in realtà, quelle della confezione omaggio, e poi basta, anzi se per caso andando verso il cinema vedevo una farmacia ci giravo proprio alla larga. 

Fa niente -aveva detto mia zia alla fine – guarda che Sabino non lo disturbi affatto, fisso subito un altro incontro. 

La telefonata era terminata e io ho pensato che quando il festival sarà finito allora sarò veramente in trappola. 

 

VII - Il dibattito

Sono tornato al cinema dopo la sbronza al Caffè Notte e là davanti c'era il regista incontrato due sere prima, che mi ha salutato con la mano. 

L'albero di trasmissione è il titolo dell'opera prima del regista pugliese, e tutta una parte di me era andata là solo per farlo a fette, dato che lui (il regista) aveva criticato un film che a me invece era piaciuto. Grave errore da parte sua.

Invece non è andata così, perché il film di Bellomo mi è piaciuto molto. 

Parla di una famiglia pugliese, padre figlio e nonno che vivono in una mezza discarica sfaciacarrozze robivecchie e loro con quella roba ci fanno di tutto. Fondamentalmente ci fanno altre schifezze, ma a volte anche delle cose che funzionano tipo una bici. O un'automobile che non inquina.

Non mi è piaciuto il dibattito dopo, ma quello non conta niente. Ho segnato sul taccuino alcuni concetti chiave a confermare l'impressione, concetti che a un dibattito non si dovrebbero usare per non dare l'idea che stai mentendo, e che trascrivo adesso, ma così, tanto per rendere il mio testo più verticale:

- Ancillare

- Tassonomico

- In qualche modo

- Gentrificare

- Andare all'opening

 

Concetti che si commentano da soli. Comunque. Quello che avrei voluto dire io al dibattito è questo:

«Bravo Bellomo, hai fatto un bel film. Il discorso dopo insomma, ma il film proprio bene. E lo sai perché? Te lo spiego io. Te hai fatto il tuo lavoro, ora lasciami fare il mio. E' bello che il film abbia il suo proprio albero di trasmissione in un evento misterioso, quella cosa della macchina del futuro, che si può leggere in due modi, e questa lettura ambigua da parte dello spettatore è a ben vedere la stessa identica ambigua interpretazione che ha ogni figlio della propria storia familiare. 

Lo dico meglio, caso mai non fossi stato chiaro, siamo tutti stanchi e quindi è bene che io mi spieghi: la versione del nonno è che la macchina d'invenzione sia stata comprata per dieci milioni da uomini distinti, dei gran signori e successivamente immatricolata in “Isvezia”. 

Invece la versione del figlio è che quella macchina fu messa in garage, poi smembrata e con quei pezzi costruirono (costruì il figlio) nuove macchine, come i palazzi con le pietre di Roma. 

Il nipote avrà così due versioni opposte, inconciliabili: quella del nonno mitica e quella del padre terribile, entrambe vere seppur inconciliabili, necessariamente da riconciliare. Il nipote con il suo telefonino è chiamato a fare questo: a riconciliare le due versioni perché così potrà capire la ragione per cui lui è proprio quel bambino. Cioè te Bellomo. Questo movimento del nipote è il film stesso. Capisci ora?» 

Lo so è un po brutto svelare tutto, ma la mia analisi è chiarissima e perfetta. Qualcuno potrebbe dire che mi sono montato un po' la testa, che ormai la mia crescente importanza come commentatore e blogger, la rilevanza in cui è tenuto il mio giudizio, fa sì che certe volte io intervenga ai dibattiti in maniera un po' pesante, lo riconosco. 

Invece sono rimasto là in silenzio, ad ascoltare il dibattito, i discorsi di Barbetta, e le domande ingenue di Uomo-con-lo-zaino. Quei discorsi e quelle frasi che ho sentito fare mille volte a quei personaggi ricorrenti del Festival e che quasi potrei anticipare. 

Mi sono chiesto, per un attimo, se sia come al ristorante, che dopo un po’ che si va sempre allo stesso posto ormai si conoscono i camerieri e tutti i camerieri riconoscono te. Mi sono domandato in poche parole se anche Barbetta e Uomo-con-lo-zaino mi abbiano identificato e se sì in quale modo. 

Ragazzo con accredito farlocco? 

Ragazzo dal colorito giallo neon-ufficio? 

Sono domande che non hanno una risposta, ma la più probabile se proprio dovessi sbilanciarmi è: che non hanno idea di chi io sia. 

Ma adesso li ho sistemati. 

 

VIII - La meta-festa di chiusura

Mi hanno scritto quelli di Stanza 251. Una mail abbastanza irritata, in verità. Me l'ha scritta Carlo, che dei due è quello cattivo. Mi ha detto: «Uè, merdina, che fine hai fatto? Ma soprattutto dove sta il nostro pezzo?» 

Basta. Finito. 

Cari Carlo e Stefano -penso- la verità è che non sono andato né alla premiazione né alla festa. 

Quella sera ero a vedere Fiorentina-Juventus. E dopo ero stanco e sono tornato a casa. 

Potrei sempre riciclare quello che scrissi l'anno prima. Ecco quello che farò. Tanto le premiazioni si assomigliano tutte.

Cerco nel computer e scopro tra gli appunti dell'anno prima che non ho scritto neanche mezza parola sulla premiazione. Benissimo.

Cari Carlo e Stefano vi scrivo da un ostello a San Cristobal de la Laguna. Ho di fronte a me questo signore che è alla seconda bottiglia di rosso e che è rimasto impassibile per le due ore in cui io gli sedevo davanti e lavoravo al mio romanzo ipotetico. E dopo due ore, proprio adesso, lui ha iniziato a scrivere e va veramente come un treno, viaggia spedito che è una meraviglia. 

Lo scrittore alcolista credo sia tedesco e sta qui da sempre/per sempre. Cercherò ispirazione nella sua figura e scriverò della serata conclusiva a cui non ho partecipato come se fossi lui, uno scrittore affermato. Anzi no, descriverò la premiazione del Festival dei Popoli come se fossi io lo scrittore affermato alla premiazione che si terrà l'anno prossimo, il 56mo.

Che stronzata, non si berranno mai questa storia. 

 

La mail di risposta:

Cari Carlo e Stefano, ecco qua il resoconto dell'ultima sera di Festival. Spero vi piaccia. Un abbraccio, 

simone

 

La festa di chiusura:

Mi sono presentato alla serata di premiazione con un certo ritardo delle cose. Già alticcio. Mi accompagnava la mia negretta, Fanny. All'ingresso ho salutato alcune persone, quelle più credibili o che finiranno male. Un'occhiata d'intesa con Dell'Agnello, agli altri neanche uno sguardo. 

Ho ordinato al bistrot subito un giro di Fernet Branca per me e Fanny, che non l'ha voluto. L'ho bevuto io, anche il suo. Poi ne ho fatto un terzo, perché pensavo di farmene due ma quello di lei non valeva nel conteggio, come con le sigarette scroccate. 

Siamo saliti di sopra. Quando mi hanno chiamato sul palco a commentare certe scelte della giuria io ero nei bagni con l'assistente di produzione (abbiamo girato con il cellulare un porno-documentario in cui io la prendo da dietro, ancora con i vestiti mezzi addosso, lei che mi succhia un dito e dice, con accento meridionale: realiti is moor) che pietà che mi faccio, che banalità. 

Dov'era sparita la mia Fanny? La serata finale come metafora della mia vita allo sfascio: la celebrità recente mi acceca, il potere mi logora, lo so che non può durare. 

Rimpiango il passato: Diana, il Festival dell'anno scorso, quando non mi cacava nessuno, quel primo viaggio a La Laguna, a scrivere il mio romanzo di successo, ma fondamentalmente a non fare niente, solo leggere Pacifico, Arthur Miller, Licht, e, certamente, Joyce. 

Io rimpiango il passato amaramente, adesso non potrei più scrivere certe cose visto il mio ruolo. 

Sono tornato anche quest'anno ala Laguna, ma è cambiato tutto. Non ho rivisto lo scrittore ubriacone e per quanto mi riguarda devo lavorare come un pazzo per gli editori che aspettando tutto il tempo una mia mail, quell'incipit che gli ho promesso. Ma dicevo della premiazione del Festival. 

Siamo scivolati fuori dal bagno e chissà dov'era finita Fanny. Spero non fosse a vedere il film del dopo-premiazione, quel riempitivo che mi mette una tristezza addosso mortale. Spero di averle se non altro insegnato qualcosa a quella ragazza. 

Le ho insegnato a nuotare, alla mia negretta. 

Non è successo nulla, me ne sono andato. 

Ho chiuso il tabarro, sono arrivato al Rivalta. Mi sono avvicinato al bancone che non c'era nessuno, solo la mia barista d'elezione con i suoi guanti in lattice nero, da sacerdotessa bondage che stava eseguendo una sorta di liturgia, il cocktail sega. Io le ho detto: «Conosci il significato di sacrificio? Vuol dire fare il sacro». Lei mi ha guardato, ma non l'ho convinta: le mie occhiaie violacee, e non è successo niente. C'era la musica troppo alta, i registi e i miei colleghi giornalisti sfigati parlavano del più e del meno, sono uscito subito e mi sono messo fuori a bere un pisco-sour. E ricordo di aver parlato con una donna che era là, che lavorava a un film, o in ufficio, era nera anche lei, indossava un vestito blu e un cappello, e abbiamo parlato della città, doveva venire da un posto africano poverissimo, e lei ha detto una cosa molto bella, sull'essenza incestuosa di questo posto, di come sia necessario accoppiarsi con qualcuno che si è accoppiato con qualcun altro che è quasi nostra madre, o nostro padre. 

L'ho guardata diversamente, intendo guardata-guardata, e ho pensato che forse le cose sarebbero andare meglio. Che potevo ricominciare con lei e mi è tornato in mente quella pensione, un anno prima a La Laguna, quell'ex bordello convertito in ostello-airbnb, gestito da quel tizio gay, ma che aveva pure un figlio, e quei due o tre sbandati strafatti italiani che lui (il gay) usava come schiavi, in cambio di un posto dove dormire e cibo e roba da fumare. 

A quell'epoca felice in cui andavo al Festival dei Popoli e non conoscevo nessuno, quasi non bevevo niente perché non avevo un soldo, ma trovavo comunque quei maledetti soldi per andare una settimana alle Canarie, «ma allora», come diceva uno degli schiavi dell'ostello, «che cazzo ti lamenti?» Aveva ragione lui, lo schiavo, io mi lamentavo ma non ne avevo diritto. 

Erano tempi fortunati quei tempi là, quelli del 55mo. 

 

Cari Carlo e Stefano, lo so che è il pezzo è troppo lungo e confuso, ma così erano i Festival dei tempi passati, confusi, con sottotitoli sfalzati, premiazioni fondamentalmente noiose e io liberissimo di scrivere quello che mi pareva. 

Grazie per avermelo lasciato fare. 

 

Simone Lisi

Simone LisiSimone Lisi