Blues a Stokes Croft

 

 

fotografia di Serena Rossi

fotografia di Serena Rossi

Blues è un viaggio.
Senza biglietto, passaporto, scarponi.
Blues è un compagno.
Presenza fedele, abbraccio ubriaco, ombra assillante.
Blues è una brezza.
Odore di ciclamino, puntura di aghi di pino, sussurro del mare.
Blues sei tu. 
Dolore ingordo.

Attraversa quella piazzetta ogni secondo libero della sua giornata. Dapprima con passi vaporosi, poi con passi sempre più forsennati. 
Le capita spesso, imboccando l’ingresso dei vari sottopassaggi che si diramano da quel piccolo spazio a cielo aperto, d’imbattersi in un’insolita sfilata di sguardi estranei, precisamente dalla notte del 18 giugno 2013, di cui però non riesce a rammentare alcun dettaglio. 
Una domanda alimenta la sua inquietudine ipertrofica: perché, se si sofferma a indagare le rughe di quei volti, talvolta mimando un cenno della mano, ha l’impressione di essere invisibile?   

In questo luogo, di cui Dafne conserva qualche sporadica diapositiva, il sole, come un divo del cinema d’epoca, si concede solo per brevi grammi d’infinito, lasciando il posto a un’umidità invereconda, padrona delle fibre sintetiche del suo impermeabile.
Oggi, in particolare, l’aria ha uno spessore palpabile: dalle nuvole gocciola un sospiro ancestrale che percuote la memoria sedata, rosicchiando i pensieri sepolti.
Dafne, il cui olfatto è catturato da un ballo sfrenato tra olio bollente e marijuana dolciastra, rallenta il passo: qualcuno la sta rincorrendo. I muscoli contratti del collo le impediscono di voltarsi. Schiude leggermente le labbra assaggiando un sapore inatteso, simile a quello di un mascherato dolore. 
Attorno, il vociare distratto di qualche musicista da strapazzo, del signore che vende caffè italiano, della ragazza che getta una sterlina a un povero ubriaco, e nulla più. 
Quando raggiunge l’uscita del secondo sottopassaggio, la rapisce un murale della cui fulgida presenza non si era mai accorta: l’artista ha dipinto delle rose celesti che volteggiano sospinte dal vento. 
Il profumo, che sembrava perseguitarla poco prima del suo arresto, si snocciola tra i boccoli neri; scivola lungo il braccio, la gamba, il piede; penetra nel muro portando via con sé i petali delle rose. 
Ciò che rimane di quel murale è la scritta dorata: Truth and Beauty. Verità e bellezza.
Paralisi: un ingranaggio si disintegra.
Dafne inclina il capo tastandosi il torace: scapole, costole, sterno, tenuti assieme da bulloni di ferro arrugginiti; i polmoni sono d’acciaio e il cuore è un involucro di amianto. 
In silenzio, due lacrime tracimano dalle pupille blindate; le accarezza con le dita, ma i polpastrelli sono celesti e odorano di rosa.

Verità.
Verità è che il diavolo è ancora qui. 
Le ha morso i seni, conficcando chiodi incandescenti per incatenarla a sé, come un roseto di filo spinato.
Verità è che è scivolato in profondità, fratturando un ventricolo, un rene, un muscolo, per trapiantare fiori d’arancio.
Un robot con un utero stropicciato, dentro il quale appassisce una rosa celeste d’uranio impoverito. 

Bellezza.
Bellezza sono le storie odeporiche che le raccontava spesso gustando una birra, in qualche locale con la carta da parati a fiori e i libri accatastati su scaffali impolverati.
Bellezza è il modo in cui si serviva di ogni futile pretesto per succhiarle il battito di un orgasmo ogni volta che gli dormiva accanto.
Ogni volta che il diavolo si dissolveva e ritornava a essere solo un uomo. 
Un uomo da amare.

Confusa, Dafne si affretta a uscire dal sottopassaggio, gettando un occhio al Full Moon, ostello che ospita ragazzi intenti a ballare sulle note di qualche disco reggae. 
Un lieve stordimento le offusca le membra, come se si fosse appena risvegliata da un sogno, che però fatica a lasciarla andare. Si massaggia il ventre, anestetizzando l’inconfessabile, ma dall’ombelico scivola via un petalo di rosa.
All’angolo in cui è ubicato il Free Shop, qualcosa la scuote. Non è un profumo, è un suono familiare che la catapulta nella contea del cotone: Clarksdale. 
D’incanto, l’immagine tatuata sul negozio che ha appena incrociato i suoi passi si anima: l’armonicista a sinistra soffia il fiato dentro un’armonica indemoniata, mentre il chitarrista a destra regala note imbizzarrite, che esplodono in un sorriso incorniciato da lunghi baffi neri. 
Dafne è investita da un lucore abbagliante, dalla sensazione taumaturgica di essere ritornata molecola d’ossigeno. È colpa del sacro fuoco di cui è cosparsa: fuoriesce dalle narici, dalle orbite, dalle orecchie. 
Brucia ma non ustiona.
Arde ma non uccide. 
Sesso, amore, sudore.

Più tardi, l’armonica ricalca le sonorità di un ululato e la chitarra consola quel lamento di rugiada. È allora che i due musicisti scavalcano la parete, dileguandosi nel traffico cittadino, non prima di aver proiettato sul muro con le loro ombre, lo scatto di due corpi avvinghiati in una macchina ondivaga.
Avvicinandosi alla parete, Dafne si tuffa turbata nell’intimità di quei due; li scruta morbosamente: chi sono? 
La ragazza, che indossa un vestito floreale, ansima divaricando le gambe. Con entrambe le mani stringe il braccio del ragazzo che si lascia leccare il lobo dell’orecchio; le sue dita insistono a modellarla, dettando il ritmo di quel blues erotico. 
La notte, tutt’intorno, li avvolge complice e silenziosa.
Di nuovo, le lacrime sopraggiungono a rigarle il volto: sfiora quei corpi, si sporca le mani di porpora. La ragazza si volta fulminea, come se solo ora notasse la sua presenza; la inchioda con lo sguardo. E Dafne caccia un grido di spavento, perché a ogni contrazione di piacere perde rivoli di sangue color celeste. 
L’ha già incontrata da qualche altra parte, anche se non riesce a ricordare chi sia. 
  
Clacson. Taxi. La musica cessa: Dafne si risveglia da quel torpore dal fascino terribile. Allucinazioni spasmofile. I passi sprofondano in un acquitrino stridulo di emozioni cementificate; urlano le caviglie indolenzite e le ginocchia quasi si arrendono. 
A fatica raggiunge la fine del marciapiede. Conosce quell’incrocio. Se continuasse dritta entrerebbe nel cuore pulsante di Stokes Croft. Invece, devia a destra e imbocca City Road: la seconda porta bianca sulla sinistra è quella del loro appartamento.
Mentre attende il verde del semaforo, tuttavia, avverte la necessità impellente di controllare l’ora, ma le lancette dell’orologio sono bloccate. Come uno schiaffo inarrestabile che sale da dentro, frusta e percuote, spacca e infetta, così la sua voce limpida riaffiora.
«Sai che ti ritroverei ovunque» sussurra Alan.
Dafne solleva il mento. L’istinto le sputa in faccia. La sua maschera di cartone crolla sotto il peso di un’impalcatura marcia. 
Finalmente lo intravede, altero e disperato, il murale che indossa la sua umbratile gramaglia: qualcuno ha dipinto il volto di una ragazza dai boccoli neri, labbra carnose, con lo sguardo annegato in una tristezza ferita, e lacrime rosa che come petali si librano nell’aria e volano via.

«È carino qui, non ti sembra?» le chiede Alan indicando l’appartamento che hanno appena fermato. 
«Dovrò abituarmici, è tutto così diverso» gli sorride Dafne, fantasticando sul loro nuovo cammino insieme.
«Lo è, ma ce la caveremo alla grande, come sempre. Devi solo avere un po’ di fiducia in noi, tesoro» la rassicura Alan. «Ti ho mai deluso?»
Il profumo di rosa che Dafne ha spruzzato sul collo pervade la macchina. 
Alan non si trattiene, gli occhi ridotti a piccole fessure e il respiro sempre più affannoso, ansioso di farla sua. Le lingue squamate si sciolgono, leccano, affrancano. 
«Con questo bacio ti sbuccio l’anima» scherza l’uomo dai pigmenti celesti, muovendo le mani in un brindisi fantasma.
Ha scelto un blues tra i cd da inserire nell’autoradio: armonica, chitarra e voce. 
Quelle note saranno le uniche e ultime testimoni di una notte trascorsa a far fiorire promesse sfacciate.

Alan e Dafne si sono spenti la notte del 18 giugno 2013, circa un mese fa: incidente stradale.
Miocardio accaldato, eccitazione selvaggia, nei pugni il futuro cangiante.
Fuliggine tossica: Dafne era alla guida, un poco brilla, con il cuore fluitato nella mandibola del diavolo.
A nulla è servito fingere di sopravvivere, soffocare il dolore, fasciarsi le vene, prendersi a pugni il fegato, storpiarsi il viso col trucco da pagliaccio, incidersi un sorriso defunto, vagolare nel vuoto di un dolore eterno e irreparabile. 
Alan è sempre qui, a pochi passi da lei, teso verso la sua schiena inconsistente, senza riuscire ad afferrarla mai; tumulato nelle lacrime indigenti, negli spazi vuoti dei sogni marcescenti; impastato dentro ai mattoni del muro dipinto di musica e sangue. 

Blues è un viaggio.
Furente e inconsolabile.
Blues è un’anima.
Di preghiere che divampano inarrestabili fino al cielo macchiato di porpora.
Blues sono io.
Amante dell’uomo sepolto e ostaggio del diavolo immortale.

Blues.
Amore ingordo
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Serena Rossi

 

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