Tutti i difetti del mondo

L’estate dell’ottantaquattro pesavo 55 chili. Avevo da poco iniziato un autoritratto che non riuscivo a continuare se non di notte e solo a certi orari improbabili. L’orario migliore era dalle 1 alle 2 e 35, riprendevo intorno alle 8 e 13, poi più niente fino alle 21. Non che avessi bisogno di una luce particolare per lavorare, il mio studio era quasi sempre al buio perché, anche di giorno, l’ombra che si staglia dal palazzo di fianco al mio , raggiunge l’unica finestra dello studio, una stanza di 34 mq circa. Il vero problema era che non riuscivo a riconoscermi davvero nel quadro, o meglio, mi sembrava che fosse il quadro a non riconoscersi in me. Il mio ritratto, almeno così credevo in principio, voleva che dipingessi una me più giovane, una me ragazza, bambina persino e visti gli orari assurdi in cui mi concedeva di proseguirlo, spesso mi addormentavo e quando mi svegliavo ci trovavo un accenno di zigomo, la linea di una palpebra, un ombreggiatura, che non ricordavo di aver aggiunto. Un giorno, durante una di queste sedute nello studio, mi sentii particolarmente stanca. Fu come se, varcando la soglia, le forze d'improvviso m' abbandonassero. Persi i sensi quasi subito e mi lasciai cadere su un vecchio logoro e polveroso, che tengo lì per pietà, perché la stanza è buia e non ci entra mai nessuno tranne me. Quando mi svegliai la stanza era stranamente illuminata da un fascio di luce densa e ordinata, proiettata al centro del quadro. All’inizio non ci feci caso perché rimasi ipnotizzata dalla fitta corrente di pulviscolo che ci danzava dentro, ma poi mi resi conto che più mi avvicinavo al dipinto, più la luce si ritraeva. Giunta ad un metro e venti di distanza dal quadro, mi accorsi che il fascio luminoso era scomparso, lasciando al suo posto un piccolo foro perfettamente circolare. Ricordo di aver tracciato le diagonali ed essermi accorta che il buco era indubbiamente al centro della tela. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a spiegarmi in maniera razionale la natura di quel foro. Non posso giurare d'essere stata del tutto sveglia quando quello strano fenomeno si manifestò, ma quel forellino c’era e non ero stata io a farlo. Credetti d’essere lì lì per impazzire, che quel quadro non fosse reale e forse non lo erano neanche lo studio, la casa presa in affitto, né Rue Poulet, strada in cui abitavo al tempo, né Le Floors, dove andavo a mangiare quasi tutti i giorni ed ero solita incontrare i miei amici. Ma dire che fossi io l’unica ad esistere realmente mi sembrava una presunzione bell’e buona. Ho tutti i difetti del mondo, ma la presunzione non rientra tra questi, e se uno impazzisce credo gli spetti almeno una forma di pazzia che in qualche modo rispecchi il suo carattere.  Resta il fatto che qualcosa dovevo pur fare, non potevo lasciarmi andar via così, perdermi in un guazzabuglio di pensieri incoerenti, di proiezioni macabre fondate su chissà quale teorema del buio, dovevo reagire, e per me reagire voleva dire consultare Johan, perché Johan era l’unico che riusciva a dare interpretazioni corrette ai miei lavori. Individuava collegamenti che a chiunque altro sfuggivano, ma, soprattutto, ristabiliva sempre un certo legame tra quadro e pittore, tra scultura e scultore, tra fotografia e fotografo, che non aveva nulla a che vedere con le elucubrazioni idiote e banali dei critici, che hanno bisogno di riportare l'arte al reale per far finta di capirci qualcosa. Insomma Johan era il miglior senso che ci puoi trovare, perché anche se non è quello in cui credi tu, il suo è sicuramente più convincente. E poi chissà, con un po' di fortuna mi avrebbe aiutata a vendere il ritratto, una volta finito. L’appuntamento era per le 3 e 13 al “Le Floors”. Avevo scelto quell’orario così anomalo perché fino a quel momento proprio non me la sentivo di varcare la soglia di casa. Era una giornata grigia e cadeva una pioggia fine che non bagnava i vestiti, li inumidiva appena e mi faceva gonfiare i capelli facendomi somigliare ad uno di quei fiori di polline, che i bambini  e gli innamorati si divertono a soffiare. Johan era seduto ad un tavolo piccolo e tondo al piano superiore, beveva un caffè e fissava la strada distratto. Non sembrava trovarci nulla di interessante in quello che accadeva là sotto. Un ciuffo di capelli rossi gli penzolava sul viso nel tentativo di tuffarsi proprio in quella tazza di caffè fumante che doveva aver ordinato da poco. Sono sicura che ci mise un po' ad accrogersi di me, anche dopo che m'ero seduta al tavolo lì con lui. Il tempo che impiegò ad incrociare il mio sguardo sortì su di me lo stesso effetto che fa la sentenza di un giudice un’istante prima d’essere pronunciata. Mi convinsi che i suoi occhi, appena sbattute le palpebre, avrebbero prodotto lo stesso suono del martelletto di legno che sancisce la fine di un'udienza. L’accusa sosteneva la mia più totale evanescenza, la difesa pure. Poi Johan diceva, che succede Barr? Ce l’hai scritto in faccia che non è un buon periodo. Quelle parole mi lasciavano interdetta e per un attimo credetti seriamente di avere una frase scritta in fronte e provai a mandarla via con la manica della giacca e feci in modo che Johan non se n’accorgesse, ma Johan se ne accorse e si fece subito serio e da quel momento non si voltò più verso la strada ma guardava solo me, come se fossimo stati gli unici due sopravvissuti ad una catastrofe che aveva colpito entrambi allo stesso modo. Non mi sentivo più sola. Volevo abbracciarlo e dirgli grazie, ma riuscii lo stesso a trattenermi e a non farlo preoccupare troppo. Ascoltava in silenzio tutto quello che avevo da dirgli, sullo studio e il fascio di luce e la tela e quel foro maledetto piantato lì in mezzo e poi parlò e allora fui io a prestare attenzione. Non so dirti quale sia il problema Barr, ma posso tentare comunque una soluzione. Anche a me è successo qualcosa di analogo, evito di scendere nei dettagli, ma la cosa che mi ha aiutato in questi momenti di, come dire... pressione espressiva? E' stato decidere di assecondare l’ispirazione e non opporre resistenza. E cosa dovrei fare secondo te? Dissi, approfittando di una pausa per non interromperlo. Mi sembra che il quadro dica una cosa ben precisa, forse stai sbagliando le proporzioni o qualcosa  del genere, voglio dire, hai un punto di fuga e due diagonali, parti da quelle, insisti, cerca delle relazioni geometriche, tenta con i numeri se necessario. Ma io non so niente di numeri Johan. Meglio! Vista la storia assurda che mi hai raccontato, sarebbe preferibile che tu risolvessi la questione con i numeri piuttosto che con altre spiegazioni folli. Pensai che aveva ragione, anche se per me non c'era niente di più folle ed incomprensibile dei numeri. Ma questa spiegazione non mi bastava, o forse era Johan che non mi bastava, avevo ancora bisogno delle sue attenzioni, del resto è umano, no? Allora Johan prese a parlarmi della sezione aurea. Sai cos’è la sequenza di Fibonacci Barr? Mi domandò. Si, più o meno, risposi io. Allora prova con quella, tenta una sezione aurea del tuo ritratto, vedrai, male che vada approdi alla perfezione. Poi sorrideva e non capivo le sue intenzioni, se era venuto lì con l’idea di sfottermi o di aiutarmi. Mentre parlava mi ero accorta che il caffè che stava bevendo era corretto, riconobbi l’odore della sambuca, probabilmente era ubriaco, da giorni forse. Tu come stai Johan? Allora tornava a guardare fuori dalla finestra, lontano, in quel lontano che è nelle cose. Poi diceva, Miariam se n’è andata e Parigi vomita grigio da ogni parte, a cosa credi che serva una pioggia che non bagna? Te lo dico io a cosa serve, alla stessa cosa per cui si risponde sempre “bene” quando uno ti chiede come va. Anche la natura sa essere formale Barr, e quando lo è non c'è niente di più mostruoso, di più reale. Gli pareva d'esser triste per convenienza a Johan, così mi disse, si sentiva talmente rassegnato che nemmeno l'infelicità che provava era davvero la sua. Ci salutavamo poco più tardi, pagavo anche per lui e dal conto era chiaro quanto e cosa avesse bevuto. Il barista non la smetteva più di struggersi in moine e di ringraziarmi, era sicuro che nessuno l’avrebbe mai risarcito per tutto l’alcool che gli aveva servito. Mentre tornavo a casa pensavo, e se avesse ragione? Forse dovevo davvero lasciarmi andare, voglio dire, vale di più poter vedere la propria opera compiuta nel modo migliore di cui si è capaci o vivere anche un solo istante di ispirazione pura, in cui l’opera è già conclusa solo per chi la realizza? Vero è che il gesto ammazza le possibilità in cui una cosa potrebbe essere e non sarà mai. La sezione aurea… che idea sciocca, e chi cazzo era questa Miriam?! La verità è che ero un po’ gelosa di Johan, ma i miei problemi si sostituivano ai suoi, così capivo che non ero innamorata di lui. A casa cominciai a documentarmi su Fibonacci e la sezione aurea e lo feci più per dare torto a Johan che altro. Ammetto che la cosa mi sfuggì di mano. Studiai per mesi la sequenza e ogni sua possibile applicazione. Oltre ai greci saltavano continuamente fuori il nome di Leonardo Da Vinci, di Bach, Mozart, Beethoven e altri ancora. Esistono poi riferimenti espliciti alla sezione in botanica e anatomia, ad esempio, le corolle dei girasoli si sviluppano in tale maniera e le ossa della mano di un uomo adulto seguono lo stesso principio. Con il passare del tempo la sezione aurea era diventata per me una vera ossessione: ascoltavo solamente alcuni compositori, passavo le mie giornate a fissare solo certe opere, a contemplare certe strutture architettoniche, con la speranza di porre fine alle mie preoccupazioni sull’autoritratto, che non avevo più ripreso dal mio incontro con Johan. Persino camminando contavo i passi secondo la sequenza, e mi muovevo a piccoli balzi, come fanno i bambini quando giocano al gioco della campana. La particolarità di queste cifre è che il rapporto tra una e la sua seguente si avvicina molto rapidamente a 0,618 e questo è chiamato numero aureo. Essendo una profana in materia non riuscivo a capire come un numero che continua oltre lo zero potesse avere tutta questa importanza, ma per me l’aveva e più d’ogni altra cosa. Smisi di uscire di casa e anche al “Le Floors” non mi facevo più vedere. Il primo mese il telefono non faceva altro che squillare, ne avevo molti di amici, amici veri intendo, di quelli disposti a chiudere un occhio se non ti fai mai sentire, per poi accoglierti a braccia aperte quando devi ricominciare da zero, o da 0,618. Poi anche il telefono aveva smesso di squillare e il campanello se ne stava zitto zitto come se temesse d’essere redarguito al primo “drin”. Cominciai a mangiare solo riso in bianco, 2 parti d’acqua e 1 di riso, a bere tè, 3 cucchiaini da caffè di foglie essiccate e 5 bicchieri d’acqua, 1 sigaretta a mezzogiorno, una alle 1, una alle 2, una alle 3, una alle 5 e via dicendo. Ero diventata un'altra persona, non lo dico con circostanza, potevo permettermi di camminare in stradasenza per ore,  certa che nessuno dei miei amici m'avrebbe riconoscita qualora m'avesse incontrata. Questa perdita dell' identità non era imputabile soltanto ad una magrezza a dir poco spaventosa, ad un fisico deturpato, stravolto, vessato, era qualcosa di più radicale e totalizzante, di molto più grave. Non so come, ma alla fine la trovai la forza d'ammettere che non potevo andare avanti a quel modo. Ero talmente spaventata che mi imposi di abbandonare le ricerche e ci riuscii, mi costò uno sorzo immane, ma per un po' ne fui capace. L'astinenza però durò ben poco perché, nonostante avessi accantonato gli studi sulla sezione aurea, non riuscivo a lasciar perdere il quadro. Entrai nello studio una mattina spinta da un’ insospettabile leggerezza. Era tutto come l’avevo lasciato, so che sembra una cosa ovvia, ma io ero certa che avrei trovato qualcosa fuori posto, un pennello ancora bagnato, la finestra aperta, un tratto sulla tela che prima non c’era. Scoprire che non era accaduto nulla di tutto ciò mi aveva messo ancor’ più in agitazione e all’inizio fui sul punto di andarmene, ma poi trovai il coraggio di sedermi alla mia postazione e ripresi a lavorare con molta naturalezza. Stesi una prima mano di verde in modo tale che facesse da supporto al rosa, per rendere più fedelmente il colore della pelle. Poi una bella campitura d' un celeste tenue, da far brillare in un secondo momento con luminescenze di bianco. Affilai le dita della mano sinistra che si ricongiungeva alla destra sul petto, all’altezza del plesso solare. Volevo farle stringere qualcosa, un ciondolo pensavo, ma mi sembrava appesantisse troppo quella figura tanto graziosa e decisi di lasciar perdere. Pensai ad una piuma, poi ad un uccello, uno piccolo uccellino frenetico con il becco sottile, di quelli non facili da catturare, un colibrì, quello sì che mi pareva appropriato. Dopo qualche ora gli occhi cominciarono a bruciarmi, le mani non riuscivano più a tenere il pennello come prima e capii che era l’ora di smettere. Mi sdraiai sul vecchio materasso rattoppato e pieno di polvere lasciato a macerare nel suo angolo e questo mi accolse come il migliore dei giacigli, tanto che non l’avrei cambiato con nessun altro al mondo. Mi addormentai, mi addormentai quasi subito e sognai un campo coperto di neve, senz’ alberi, senz’ orme. Io camminavo per ore e poi cadevo esausta. La neve mi riempiva la bocca e le orecchie, mi entrava nella maglia, nei pantaloni, nelle scarpe, cercava d’impadronirsi d’ogni anfratto che poteva trovare e ci riusciva, sentiva le mie vene vibrare e voleva le vene, sentiva il mio respiro testardo che premeva contro la terra morta e voleva il mio respiro e io dicevo, fa pure, fai ciò che vuoi tu che sei in grado, io non ti posso ingoiare, non ho armi per contrastarti e allora lei mi faceva, vai, sei libera, che valore può avere qualcosa per cui non posso lottare. Allora mi alzavo e sotto al mio peso c’era un colibrì, un piccolo colibrì dorato, si muoveva appena, steso com’era su un lato, proprio lì, nel punto esatto in cui la mia impronta aveva il suo plesso solare e io guardavo il mio, dove invece s’era aperto un foro, da lì se n’era uscito quell’animale. Lui era libero e io morivo senza il mio cuore. Mi svegliai ad un ora morta, imprecisabile, avevo una sete tremenda e cercavo con la mano, accanto al materasso, il bicchiere d’acqua che lascio sempre sul comodino accanto al mio letto. Ovviamente non lo trovai, ma al suo posto c’era qualcos’altro, qualcosa che non mi ricordavo di aver lasciato lì. Sul pavimento le dita raggiunsero un oggetto freddo ed umido, come una piccola lingua. Ritraevo la mano e mi accorgevo che i polpastrelli erano intrisi di una sostanza densa e viscosa. Alla luce di una  lampada, anche questa sistemata per terra, potevo finalmente determinare l’identità di quella cosa. Era vernice, colore a olio per la precisione, d' un rosso pulsante, determinato. Sul pavimento c’era il pennello che ne era intriso, il quale, ne sono piuttosto sicura, non ero stata io ad abbandonare lì. Alzandomi mi stirai sollevando le braccia, poi provai ad appiattire le grinze sul vestito passandoci le mani sopra. Solo a quel punto mi rendevo conto che, poco sotto al seno, all’altezza del plesso solare, una grande macchia rossa si dilatava sul mio vestito come un cancro freddo per la lama. Sto morendo, pensai, toccando la macchia e cercando d’infilarci due dita dentro, sicura di trovare finalmente la ferita, ma niente, altra vernice rossa, altro colore ad olio, a voler’ essere precisi. Mi dirigevo, un po’ a tentoni, un po’ aiutandomi con la lampada, verso l’autoritratto e lo facevo senza pensare alle conseguenze di questa mia curiosità famelica. Questa volta la tela era cambiata davvero. Su tutta la superfice si estendeva una griglia con numeri e proporzioni precise, linee guida da seguire, margini a cui attenersi e una spirale appena accennata, che prendeva le mosse dal foro e si sviluppava lungo metà quadro. Il colore era lo stesso colore che avevo sui vestiti e sulle mani. Non riuscendo a muovermi per lo spavento, l’unica cosa che  mi venne spontanea di fare, fu irrompere in un pianto disperato, intervallato da risatine nervose e contratte. Le lacrime formarono un rigagnolo roso tra l’intercapedine delle mattonelle, fu così che mi accorsi di avere altra vernice sulla faccia. Stessa griglia, stessi numeri, stesse proporzioni del quadro, ma questa volta sulla mia pelle. Ero paralizzata. Sentivo gambe e braccia trasalire, freddo, soltanto freddo, il ticchettio dell’orologio di Johan, il volto sconosciuto di Miriam, che con un bacio assorbe l'identità di Johan, Johan che ha gli occhi gelidi come uno dei collier di mia madre e guarda dalla finestra del “Le Fleur” la gente passare e consumare il suo tempo. Mi ritrovai alcuni ciuffi di capelli tra le mani, li avevo strappati senza accorgermene e forse mi sanguinava la cute, ma con tutto quel colore tra le dita non riuscivo a capirlo. Quando il delirio m’investì, fu come un’onda, una di quelle onde non straordinariamente grandi né potenti, ma piuttosto ben calibrate, che ti colpiscono nel punto giusto con tutta la forza che possono. In quel momento puoi afferrare l’esatto fotogramma della tua resa. La verità è che dovevo assecondare il mio voto verso il quadro, era lui che guidava quel corteggiamento abissale, così era deciso. Esaurite le lacrime presi a guardare la tela in modo diverso. La fissavo negli occhi quella me che non ero mai stata, senza timore, senza rimpianti. La figura irradiava una pace profonda. Era un’anima incosciente e pura, dotata di una forza sovrumana. Capii che mi era concesso di guardarla soltanto perché limitata da quelle sbarre di sangue acrilico. La griglia infatti colava in filamenti fino al pavimento. Presi un coltello che usavo per raschiare la vernice e me lo passai sulle guance. Quando sentivo il mio viso somigliare al ritratto, provavo come piccoli orgasmi elettrici, e una goccia tiepida mi colava tra le gambe. Non posso riferire a parole quello che provai quando la lama del coltello recise la carne sotto gli zigomi. L’estate dell’ottantacinque pesavo 38 chili. Puntavo al fulcro del quadro, al foro centrale, il luogo da cui la spirale aurea prendeva le mosse. Attentavo al luogo d’origine di quella perfezione, alla massa embrionale di quel raggio di luce eterna che ha infiniti nomi. L'avevo lì nella gabbia di vernice. Impossibile dire cosa fosse davvero, perché quella cosa non era mai stata. La perfezione dell'essenza tra quelle sbarre s'era fatta forma. Ascoltai la sua promessa: sparire senza lasciar traccia, perché meno tracce lasci, più certo è il paradiso. Mi puntai il coltello all’altezza del plesso solare, in cerca dello zero.

Tommaso Ferrara

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Tommaso Ferrara nasce a Firenze il 28 marzo 1991. Durante gli anni del liceo si cimenta nella scrittura in versi, intraprendendo un lungo percorso di formazione che lo porterà, nel 2011, a vincere il premio Mario Luzi nella sezione dedicata a gli studenti. Nel 2010 frequenta la facoltà di lettere moderne di Siena. In questi anni l'interesse per la narrativa è forte e gli offre nuovi spunti e prospettive, portandolo a realizzare in breve tempo numerosi racconti ed un romanzo. Terminata l'università, si trasferisce a Torino per studiare sceneggiatura e regia cinematografica con l'intenzione di indagare nuove relazione tra due tecniche narrative diversi ma convergenti.

Tommaso Ferrara