I centauri

fotografia di Valeria Pierini

fotografia di Valeria Pierini

Non devi averne paura, mi diceva mio padre. Eravamo sul limitare del bosco. Ci eravamo messi in cammino prima dell'alba e ora il sole stava quasi per tramontare. Mio padre portava un otre di vino sulla schiena. “Gli uomini dicono che sono rozzi e di indole cattiva. Ma non è vero”, mi diceva quell'uomo ormai anziano, con i capelli incanutiti e il volto segnato dalle rughe. “A quelli giovani piace un po' troppo il vino magari. Ma quelli anziani sono forti e saggi. Tirano con l'arco e sbagliano di rado. Onorano gli dei con tributi.” Mio padre tirò un poco il fiato, l'otre di vino doveva pesargli molto. Mi rammaricavo di non poterlo aiutare, ma ero molto piccolo. “Praticano la medicina. Il loro capo si spese in tutti i modi per aiutare mia madre. Ero un bambino, come te.” Mi fece una carezza sulla testa con le sue mani callose. “Purtroppo mia madre morì lo stesso. Il centauro in cambio dei suoi servigi accettò solo qualche anfora di vino per i suoi compagni”. Udimmo poi delle urla terribili, e io mi strinsi alla gamba del vecchio. Si chinò su di me e mi disse di stare tranquillo. Dal bosco infine uscirono i centauri al galoppo, impennando come cavalli bizzarri. Ci circondarono e rallentarono il loro passo, mettendosi al trotto. Poi si fermarono. Nella parte umana avevano sembianze di giovani, con lunghe barbe scure, il petto solcato dai muscoli. Portavano archi e faretre a tracolla. Alcuni impugnavano clave. Morivo di paura. Sarei scoppiato a piangere, ma sapevo che mio padre non approvava, e non volevo dargli un dispiacere. Poi quegli esseri si fermarono, e dal bosco uscì il loro capo. Era più grande degli altri, aveva barba e capelli grigi. Teneva un pacco avvolto in tela in mano. Il cerchio dei giovani si divise in due ali e lo fece passare. Venne incontro a mio padre senza dire una parola, si chinò su di lui e vidi quei due anziani abbracciarsi. Poi guardò me, ammiccò a mio padre. É mio figlio, disse questi al centauro. Il centauro mi prese in braccio e mi sollevò come un fuscello, mi dette un bacio in fronte e mi posò di nuovo a terra. Mio padre gli porse l'otre di vino, e quello gli lascio il pacco. Venni in seguito a sapere che si trattava di rari portentosi medicamenti. Il capo centauro partì al galoppo verso il bosco. Giunto al limitare si volse verso di noi e gridò così forte che mi parve che la terra stessa tremasse. I giovani guerrieri risposero al grido, simultaneamente, levando al cielo gli archi e le clave, e si incolonnarono a loro volta al galoppo dietro al capo.  Sparirono nella foresta.

Sono passati trenta e più anni da quel giorno. Mio padre è morto. La città si è estesa fino al limitare della foresta, ricoprendo gran parte della montagna. Il percorso per recarsi dai centauri, che io e mio padre percorremmo in un giorno di cammino ora è solcato da una lunga striscia di asfalto. Le macchine lo coprono in meno di un’ora. L’amministrazione della Nuova Città cercò di comprare il terreno dai centauri, ma essi non avevano atti di vendita e si sentirono truffati. Ingaggiarono una guerra feroce contro l’amministrazione. Vennero sopraffatti in poco più di un mese. Tutta la loro ferocia, tutto il loro valore non poté nulla contro la furia delle macchine manovrate dai miliziani della Nuova Città. Si arresero. Non era mai successo in tutta la loro storia. Ero poco più di un ragazzo quando li vidi sfilare in catene durante la parata della vittoria. Avevano gli occhi coperti di lacrime e passavano tra due ali di folla che li insultava e li derideva. Non potevano urlare: il governo aveva loro reciso le corde vocali. Mio padre non volle assistere alla parata. Il governo della nuova città non gli piaceva fin dall’inizio, diffidava delle macchine e delle innovazioni, e quello fu il colpo di grazia. Si chiuse in un mutismo disperato, si ammalò poco dopo e di lì a breve morì. I centauri vennero rinchiusi nelle riserve. Io lasciai la scuola ed entrai nelle fila della Ribellione Stilita. Partecipai all’Insurrezione di Maggio e alla guerra civile che ne seguì. Quando gli Stiliti vennero infine sconfitti scontai due anni di prigionia nelle prigioni sotterranee. Quando il governo concesse l’amnistia mi ritirai ai limiti della città, vivendo del lavoro di una piccola bottega artigiana. Intagliavo piccoli oggetti di legno che vendevo ai nostalgici del mio tempo, del tempo prima della Nuova Città. Di prima delle macchine. È noto a tutti che ero uno Stilita, ma io non ne parlo mai. Al di là dei limiti della periferia si estende la montagna. Il governo ha circondato la città di una rete di metallo elettrificato. Temono che l’accesso alle montagne possa far scoppiare un nuovo fuoco di ribellione. La riserva dei centauri è al di là della rete, ma loro non vi si avvicinano mai. Almeno così credevo. L’altra notte uscivo dalla taverna dove vado talvolta ad affogare il mio dolore di soldato sconfitto. Era notte fonda e il vino e l’amarezza mi tagliavano le gambe. Di là dalla rete vidi un ombra. Era senza dubbio un centauro. Mi avvicinai per vederlo meglio alla poca luce della luna. Era un esemplare molto vecchio. Ebbi quasi un mancamento quando riconobbi il vecchio capo amico di mio padre. Era coperto di cicatrici, smagrito e invecchiato. Rimasi a bocca aperta. Anche lui mi riconobbe, ne sono certo, e mi sorrise. Alzò il braccio disarmato, e si produsse in un urlo muto. Impennò, e partì al galoppo verso la montagna.

Filippo Rigli