Free Party - Vanni Santoni

In esclusiva per la Stanza 251, Vanni Santoni presenta il suo nuovo libro "Muro di casse" Laterza, 2015.

Vanni Santoni

Quando cominciai a coltivare l’idea di scrivere un romanzo ambientato nel mondo dei free party, tra le mille vicende vissute e sentite, e le ancora mille che avrei potuto raccogliere all’interno di un movimento che aveva attraversato il continente, mutando costantemente, per più di vent’anni, ce n’era una in particolare che desideravo includere, per la sua portata epica e simbolica. Era la storia dei Desert Storm, storica tribe inglese che si avventurò, accodandosi a una carovana umanitaria dell’ONU, in ex Jugoslavia, in piena zona di guerra, riuscendo, a prezzo di rischi enormi, a organizzare rave per le popolazioni che vivevano sotto assedio nelle città bosniache. Quell’avventura, vera e propria katabasi di un movimento controculturale prettamente europeo all’interno del cuore di tenebra dell’Europa stessa, circolava da sempre negli ambienti dei rave, ormai quasi trasformata in leggenda. Quando ebbi la possibilità di raccoglierla direttamente dai protagonisti e metterla su carta, capii che da lì si poteva cominciare a lavorare seriamente su un libro intorno a questi temi, e infatti il brano che qui propongo agli amici di Stanza 251, ispirato a tali vicende, viene direttamente dalla terza parte di Muro di casse, uscito da qualche mese per Laterza.

Sai, ricordo quando, anni dopo, ero in tinello con mia madre, per una volta riconciliate, e mio fratello si era appena intruppato con questa ragazza bosniaca che aveva conosciuto non so dove, mi sa in Croazia in una di queste vacanze che faceva con quei segaioli dei suoi amici, e sarebbe andato in Bosnia, e non aveva detto il perché e il percome, era chiaro che andava a trovare una donna ma mia mamma non si capacitava, e non riusciva in alcun modo ad accettare che qualcuno potesse voler andare in Bosnia, e mentre diceva Ti rendi conto in Bosnia, come si può voler andare in Bosnia, e io Ma c’è la pace da anni, e lei Sì lo so che c’è la pace, ma dico io, in Bosnia, anche con la pace come si fa, e mi venne in mente quel giorno, io che avevo quindici anni e dal finestrino, mentre all’orizzonte si alzavano colonne di fumo scuro guardavo passare un cartello quadrato, verde e bianco, tutto crivellato, e diceva Sarajevo 172 Banja Luka 85 Tuzla 75.

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Superavamo case e fattorie disfatte nel verde, sembravano abbandonate da chissà quanto per come l’erba e gli arbusti e i rampicanti si stavano riprendendo tutto, e i paeselli erano sempre vuoti, i muri spruzzati di fori di proiettile, grossi fori neri con l’areola d’intonaco scrostato intorno, e quando menzionai le colonne di fumo, Mike disse Sarà qualcuno che sta bruciando dei copertoni, ma non mi rassicurò, perché mai avrebbero dovuto bruciare dei copertoni? e scendevamo a sud e l’orizzonte era largo e tremolante ed era come scendere lungo un fiume che diventava sempre più nero e inconoscibile, anche se tutto intorno non c’erano che campi e boschi sparsi e case abbandonate.

Quelli dei camion di aiuti ci fecero fermare tutti la notte del 27, non ricordo bene perché, forse aspettavano dritte per arrivare a Tuzla (era lì, scoprivo, che eravamo diretti) in modo almeno un po’ sicuro, e dormimmo nel camion, che Jody piazzò tra dei grossi alberi schiantati dalla guerra o dal fulmine, ma nel mezzo della notte ci fu un rimbombo e mi svegliai e uscii, e mi travolse l’idea di quanto generica fosse la mia nozione di dove fossimo, lì in una notte senza stelle in cui il buio sfumava i confini anche delle cose più vicine, solo il russare di Jody e Renault e il respiro di Mike e Beatrix costituivano un qualche appiglio alla realtà, non c’era più un dove o un quando, ero lì sola nella notte dei Balcani, eravamo diretti nel cuore nero dell’Europa, il punto più centrale e profondo e maledetto di qualcosa di grande di cui non avevo che una vaghissima percezione. Tornai al mio posto e ci misi molto ad addormentarmi e mi sembrava quasi di non aver dormito quando mi svegliò al mattino la voce di Renault che gridava stupidaggini tipo “viva la vita di campagna” e versava del latte in due tazze sbeccate e apriva un pacco di tegolini mezzo schiacciato, e davanti all’orizzonte di quel mattino del ventotto dicembre 1994, un mattino sterminato, che virava dall’azzurro al bianco, quel mattino ebbi l’impressione che al mondo non vi fosse nulla di spaventoso.

Ci vollero altri tre giorni per arrivare a Tuzla, tra continue deviazioni, su e giù per il confine, e infinite piccole tratte fatte di notte e a luci spente per evitare di farsi sparare addosso. La prima cosa che scoprimmo una volta entrati in città fu che il posto dove Jody, Mike e gli altri avevano programmato di mettere su la festa era stato tirato giù a colpi di mortaio due giorni prima, e il nostro contatto, questo tipo di diciotto o diciannove anni con una felpa gialla disse, con un sorriso ironico eppure disarmante, Scusate, e vedi come ne parlo oggi, come la metto, locali tirati giù col mortaio, locali dentro ai quali potevamo esserci noi, cazzo bastava che fossimo arrivati in orario, strade coi cecchini, pezzi di artiglieria mica di speed, mi chiederai Avevi paura non avevi paura, e io mica saprei come risponderti, ero lì, semplicemente erano completamente diversi i confini del possibile, erano diverse e astratte le regole del mondo, neanche avevo legato troppo con Mike e gli altri o con quelli del resto del convoglio, ma mi sembrava tutto più o meno normale, l’unica preoccupazione, figurati, era se sarei arrivata poi a casa in ritardo, ecco, forse fu lì che cambiò per sempre il mio concetto di limiti temporali, spaziali, fattuali, pensa che siccome il locale non esisteva più, Jody e Mike decisero di montare tutti gli speaker sul retro del camion e portarlo in giro per Tuzla con la musica a bomba, tipo pifferaio magico. Ci fermarono neanche mezz’ora dopo, nello spiazzo tra due condomini sventrati. Erano in tre, senza divisa a parte delle giacche militari diverse tra loro, e uno aveva in testa una specie di basco. Ci spianarono i kalashnikov davanti.

Out, disse quello col basco.

Ora ci fucilano, disse Renault scendendo, rivolto a Jody che stava in console.

Scendevo con Mike mentre Scot e Beatrix neanche riuscivano a muoversi per la paura, e mi immaginavo stecchita, lì su quell’asfalto con un buco nel petto e cercavo di buttarla sul ridere pensando cose tipo Questa mia mamma non me la passa.

Jody fece per uscire da dietro la console ma quello col basco gli puntò il fucile facendogli cenno di rimanere dov’era. Poi fece una faccia molto seria e disse, cercando bene le parole:

Volume up.

Mike e Renault si guardarono stupefatti; io cercavo di accendermi una sigaretta ma tremavo e non mi riusciva. Scot e Beatrix ci guardavano da dentro, ricordo i loro occhi giganti, bianchi, di dietro i finestrini.

Volume up, disse ancora il miliziano. But turn off light.

Jody lo guardò.

Or they see and shoot mortar.

E intanto un altro miliziano rilassava un po’ l’AK47 e si avvicinava a me, ero impietrita e quello mi diceva

Turbofolk, you have?

E Jody intanto doveva aver deciso che era tutto vero, e alzava la musica come gli avevano ordinato, turbofolk non ne aveva, era un pezzo acid house classico dell’88, mi sa 151 di Armando, e arrivavano altri due miliziani e iniziavano a ballare, e gli facevano cenni tipo alza il volume oppure picchia di più, e lui passava alla techno e quelli ballavano, e tiravano fuori bottigliette di šljivovica dando e offrendo sorsi e ballavano sempre più forte e a ogni cambio di basso davano una sventagliata di mitra al cielo e quello col basco faceva cenno a me e Mike, e a Beatrix e Scot che erano ancora dentro, di venire lì, di ballare con loro, e tra smitragliate e sigarette croate ballammo con quelli per quasi due ore, mentre dalle case intorno (avresti detto che erano disabitate), vennero fuori sei, sette, dieci ragazzi e anche due, tre ragazze, e pure loro si mettevano a ballare in quel fragore di vecchia elettronica e armi automatiche.

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Vanni Santoni (1978), dopo l'esordio con Personaggi precari, ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), Terra ignota e Terra ignota 2 (Mondadori 2013 e 2014), Muro di casse (Laterza 2015). È fondatore di SIC – Scrittura Industriale Collettiva (In territorio nemico, minimum fax 2013). Dal 2012 dirige la narrativa di Tunué. Scrive sul Corriere della Sera e sul Corriere Fiorentino.

Vanni Santoni