Contro il momento decisivo

Autoritraendosi con il foro stenopeico, le dimensioni di tempo e luogo, ma soprattutto il modo di riprendere l’immagine sono ribaltate. Non sono più il prolungamento del mio dito che controlla una situazione e scatta in un certo istante in cui mi metto di fronte, in opposizione alla scena, ma sono dietro e dentro l’immagine, presente e assente allo stesso tempo nel doppio ruolo di autore e soggetto, come osservatore e osservata.

Tramite l’esposizione lunga che variava da 30 secondi a 30 minuti, queste immagini non fissano l’unico momento decisivo ma un processo come un flusso di coscienza narrativa - ma non lineare, più associativa. Le fotografie che secondo le nostre abitudine sono viste come depositario della realtà lo sono sempre anche in questo caso (perché l’unica astrazione è l’uso del bianco e nero), ma raggiungono una sfera di irreale o addiritura surreale. La mancanza dell’immediato le rende effimere, sottili, morbide e oniriche apparizione fuggitive, materiali e immateriali allo stesso tempo.

Non potendo controllare la perfezione della messa a fuoco, dell’inquadratura, dell’esposzione e non usando una lente di precisione, ma un foro stenopeico, la tecnica fotografica più “low-tech”, ma anche più genuina immaginabile, il risultato è mai completamente previdibile. Non rimane che fidarsi più che di calcoli approssimativi dell’istinto e della fortuna, del caso quando la luce, la scena e la pellicola collaborano in una scrittura quasi automatica.

Dato che sono autoritratti in lunga esposizione mi interessa l’idea dello sdoppiamento, non solo nel doppioruolo davanti e dietro la macchina fotografica, ma anche dentro l’immagine, come figure spettrali, sosia o revenant. 

Affidarsi a un semplice buchino in una scatola nera e aspettare davanti alla lente per apparire, rimanendo ferma e tesa dentro il brusio e il silenzio del mondo, sospesa in tempo e spazio, è stata una esperienza nuova, più intima e quasi magica della fotografia. Appaio come un alone lattico, l’opposto di una foto segnaletica col suo eccesso di informazioni dettagliate, ma col passare dei minuti in posa trasmetto altre informazione meno palesi. 

Nella filosofia romantica e dopo nella psicoanalisi, adottato anche nel surrealismo, l’autoritratto e lo sdoppiamento dell’artista sono molto presenti. Non è visto soltanto come un atto narcisista o l’affrontare della morte, ma come ricerca di una identità spesso in una scissione interna spaventosa: un alter ego nemico, un inquilino nero, una perturbante estraneità del fantasma nello specchio come lo descrive Hoffmann, la Droste-Hülshoff o come li dipinge Schiele, anche se con la psicoanalisi l’inconscio diventa “ufficialmente” parte integrale dell’Io. In queste foto sono rappresentata io, ma non necessariamente sempre come persona o alla ricerca della mia identità, ma talvolta più come personaggi, come luogotenente di una o diverse figure che dirigo dentro l’immagine.

Non sono attimi, ma “time frames”, comunque rimangono fugaci e transitorie. Sono fra il tangibile e l’immaginato, talvolta malinconici mementi mori, radiografie spettrali, talvolta sottili giochi di relazione col mondo, quando tempi e luoghi si sovrapongono e diventano  come scene di un dejà-vu, dove la memoria e il presente entrano in un cortocircuito, evocando anche fantasie su che cosa succedeva prima e che succederà dopo, quello che Walter Benjamin chiamava “l’inconscio ottico”.

Bärbel Reinhard