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Carlo Zei - Piazza Santo Spirito, Firenze 2015.

Sono stata sposata una volta. Un ragazzo gentile con una cinquecento blu. Un pomeriggio, come tutti i pomeriggi di quel tempo scandito dalla sensualità, ci eravamo avventurati nella boscaglia umida delle colline rimanendo impantanati; chiedemmo aiuto ad altri ragazzi, nudi come noi, ma comodi in una 4x4. Terrorizzati, un altro pomeriggio d’inverno, siamo scappati dalla stessa zona, un po’ più a valle però, per via di uno che si era messo a guardare. Erano i giorni di Firenze e dei suoi amanti violati. Ci andammo a rivestire sotto le luci arancioni di un locale poco distante, quello frequentato dai ragazzi più grandi. Mia sorella andava spesso a ballare lì. Ancora, la domenica pomeriggio, potevi andare in discoteca. Ricordo la prima volta che di domenica siamo andati. Era caldo, forse primavera, si stava bene senza il giubbotto, tanto che rimanemmo fuori sul muretto a baciarci tutto il tempo. Più di dieci anni siamo stati insieme, contando anche quelli della convivenza da contratto, affollati di gente, amanti e valium. Questo è quello che ricordo. Un ragazzo gentile. Ci siamo presi anche a schiaffi e calci. Che ne sarebbe della gentilezza senza la sua totale assenza, senza il campionario completo di specialità umane che la nostra irriducibile razza può vantare. Dopo uno scontro verbale, non necessariamente volgare, è la gentilezza che riconduce ogni parola al suo reale stato di peso sul respiro, ogni gesto alla matrice di lama che falcia il vuoto. E’ la grazia che conduce all’intelligenza, c’è poco da fare. Si addice a chiunque, nessuno riuscirebbe a sembrare fasullo; gli stronzi, invece, quando sono vecchi, maturi diciamo, sono sempre inappropriati, goffi. La cattiveria è in esaltazione nella giovinezza, in questa si perfeziona, scorre e si esaurisce. Perché ad un cero punto si diventa vecchi e se ancora non si è stanchi di fare i cattivi, non siamo che dei coglioni e, a pensarci, lo siamo sempre stati. Poi c’è stata un’altra relazione, anche questa durata un po’ di anni. Un ragazzo bellissimo. Un pomeriggio, come altri di quel tempo scandito dalle droghe, ce ne stavamo tranquilli e rimbambiti a mangiare l’ottima zuppa di legumi e cereali misti che ero solita preparare. Con tanto peperoncino e un po’ di curry. Per farla brevissima, lui crollò con la faccia nel piatto bollente. Perse coscienza all’improvviso, non si svegliava più. Cercai di farlo stendere, era pesante, lo afferrai per le spalle e lo spinsi giù dalla sedia. Un gran tonfo. Gli gettai addosso dell’acqua urlando, niente, non si riprendeva. Cominciai allora a schiaffeggiarlo e urlavo e colpivo e finalmente riaprì gli occhi. Aveva qualche problemino con l’alcol e stava cercando di risolverlo aiutandosi con l’alcover, un miscuglio fornito dal sistema sanitario. Micidiale. Uno sciroppino capace di farti sballare come niente. Sempre più spesso lui ne abusava. In quel periodo chiunque frequentasse casa si abbeverava alla bottiglietta. Il patto era che mai avremmo chiamato l’ambulanza, mai. Abbiamo fallito come tossici e come aspiranti suicidi. Ci trasferimmo in un paesino alle porte dell’Appennino, lasciandoci dietro una scia di debiti e menzogne. Uno di quei posti dove chi non è del luogo sta lì per espiare. Eravamo circondati da un branco di ex qualcosa. Tutto era ricoperto di neve e immacolato al mattino presto. Mi insegnò a fare le impronte col pugno, ricordo che ne rimasi affascinata, davvero sembravano i piedini di un neonato in giro per i boschi. Un ragazzo bellissimo. Da quelle parti producono grandi quantità di ottimo vino.

 

Annamaria Travaglini (testo)