Varianti d'autore - Andrea Zandomeneghi

Ritorna su Stanza 251 Andrea Zandomeneghi con un esperimento imprevedibile: ci regala un estratto dal suo nuovissimo romanzo “Il giorno della nutria”, ma in sintonia con il suo modo di raccontare ce ne offre qui una versione rivisitata e diabolicamente alterata. Il tutto preceduto da un invito alla lettura di Vanni Santoni.


Questo è un invito alla lettura del Giorno della nutria di Andrea Zandomeneghi. Si dirà che lo consiglio in quanto direttore della collana che lo pubblica. Vero. Ma posso comunque raccontare perché l'ho scelto, sopra le migliaia di manoscritti che ogni anno giungono in redazione. 

L'ho scelto perché Il giorno della nutria presenta una scrittura già formata, sia in senso stilistico, sia in senso tematico, cosa rara in un esordiente, e perché Andrea Zandomeneghi mostra una caratteristica essa pure rara (questa, anche tra gli autori affermati): una inusitata capacità di unire uno spessore letterario considerevole con una decisa verve comica. Il giorno della nutria è infatti una rutilante slapstick comedy, che riesce allo stesso tempo – e in modo serissimo – a mettere il punto sul filone delle narrazioni della provincia, e a dirci qualcosa di nuovo sul tema, sempre attuale, delle ossessioni, inserendosi allo stesso tempo, e con grazia erudita, all'interno di un canone letterario ben più ampio. 

Vanni Santoni

Andrea Zandomeneghi fotografato da Carlo Zei

Mare nostrum

Non si può giocare tutto il giorno tutti i giorni – neppure da bambini. O comunque io non potevo, non ce la facevo. E così spesso mi sedevo sul bagnoasciuga e guardavo l’orizzonte marino. A sinistra stava la sinistra ciminiera della centrale elettrica di Montalto, luogo d’industriosa turpitudine; davanti a me l’isolotto delle Formiche, che credevo appunto abitato solo da formiche (ma cosa mangiavano se c’erano solo loro? mi chiedevo e ipotizzavo carogne di gabbiani e semi portati dai venti); poco più a destra, in lontananza, visibili solo quando il cielo era limpido, i tre picchi dell’Isola di Giannutri che per uno strano effetto ottico di cui non conoscevo il nome parevano levitare sull’acqua cosicché quel luogo remoto assumeva caratteri magici e mitologici, in particolare immaginavo ci vivesse la Ninfa Calipso; e poi sulla destra l’ondulato promontorio del Monte Argentario che parte con una testolina in rilevo, per poi abbassarsi seguendo il collo oblungo e infine innalzarsi sul dorso mastodontico: altro non era che un enorme dinosauro fossilizzato e giacché i dinosauri li conoscevo bene sapevo che si trattava proprio di un diplodocus. Questo vedevo dalla spiaggia deserta dove mi portavano i miei nonni, a metà strada tra l’Ansedonia e la Torba, tra lo stabilimento della Strega e quello del Frigidaire, dove si ammassavano calpestandosi gli ombrelloni e le genti, persone che vivevano il mare come bivacco sudato di un’orda indisciplinata e litigiosa: gli stabilimenti balneari li vedevo come inferni e non capivo come fosse possibile che degli umani se l’infliggessero volontariamente e per di più pagando e magari venendo in macchina da lontano, da Roma o da Terni.   

Quando ero un bambino i miei genitori avevano un forno a Borgo Carige, una frazione di Capalbio. Di notte facevano il pane, di giorno lo vendevano in negozio oppure portandolo direttamente ai poderi con un furgoncino. Mentre la panificazione notturna m’era estranea, avvolta in una misteriosa ed escludente atmosfera virile, assistevo invece volentieri – rubando pasta frolla cruda e mangiando cucchiaiate di «nutella» direttamente dai secchi da tredici chili – alla muliebre realizzazione dei dolci, che avveniva di pomeriggio. Una volta mangiai così tante pizze di pasqua ancora calde, appena sfornate, che mi sentii male: un’indigestione – da allora non posso, pena la nausea, neppure sentirne l’odore. Ma l’estate era diversa. D’estate la richiesta di pane e dolci da parte direttamente dei turisti e indirettamente dei ristoranti e dei bagni decuplicava. I ritmi di lavorazione si facevano frenetici, non c’era requie, si faticava anche per sedici ore di fila: ai miei genitori restava giusto il tempo di dormire e neppure molto. Cosicché venivo affiato per settimane intere ai nonni materni che mi portavano appunto a vivere con loro al mare.

I romani chiamavano il Mediterraneo mare nostrum, ma per me il mare nostrum era un’altra cosa, si trattava della porzione di mio nonno della striscia di dune e macchia che si frapponeva tra la stradina dei Cavalleggeri e la spiaggia. Quei terreni un tempo demaniali erano stati poi venduti a un privato per una qualche sorta di attività estrattiva di cui non ho mai saputo molto. Il privato – di nuovo non ne conosco il motivo – contrasse un debito con mio nonno, ma, non avendo poi pecunia per saldarlo, lo fece trasferendogli la proprietà di quel fondo. Il mare nostrum era recintato e ci s’accedeva da un cancello che quando arrivavamo volevo sempre avere l’onore di aprire e poi richiudere. Tale logistica permetteva un isolamento pressoché totale, era come se l’intero lido fosse nostro.

Mio nonno faceva il meccanico ma era un inventore, ad esempio con il motore di una lavatrice aveva costruito un argano che serviva per tirare a secco una barchetta con cui facevamo piccole escursioni e battute di pesca. Aveva anche fabbricato una casetta di legno su ruote, l’aveva trasportata nel nostro appezzamento con un trattore e d’estate ci abitavamo: io, mio fratello, mio cugino e i miei nonni. Addormentarsi ipnotizzato dalla litania ascetica della risacca. Svegliasi e andare a lavarsi il viso nel mare liscio come l’olio, ancora vergine, con le marmorette che s’inseguivano lì a due passi.

Tre cose – oltre alla contemplazione immaginifica dell’orizzonte – riempivano le mie giornate: giocare a racchettoni, pescare (imparai a distinguere al primo sguardo un’orata da un sarago, un cefalo da una spigola, mio nonno e mio cugino m’insegnarono a differenziare i fili, a legare gli ami e i moschettoni, a calibrare i piombini, a costruire una montatura per la bolognese, un terminale il bolentino, una lenza per il surfcasting minuto) e fondermi con la sabbia bollente.

Ne Il giorno della nutria ho scritto: «Mi piaceva sdraiarmi sulla sabbia calda. Dove la spiaggia sta per terminare e quasi iniziano le dune e i cespugli di ginepro coccolone. In tarda mattinata e poi nelle prime ore del pomeriggio la sabbia lì scottava, per scendere in spiaggia ci mettevamo le ciabatte. Io mi ci sedevo, mi acclimatavo, lentamente appoggiavo anche la schiena e la testa. Con gli occhi chiusi fissavo il sole e guardavo le forme rossastre che formava la luce. Di tanto in tanto mi premevo i palmi delle mani sulle palpebre, oscuravo quello sguardo cieco, premevo forte e comparivano sbrilluccichii in movimento, su uno sfondo nero. Vedevo l’universo e le stelle e i pianeti. Di tanto in tanto cambiavo la pressione esercitata, scendevo con la mano sulle guance e lasciavo solo le dita a coprire gli occhi. E così vedevo ombre e figure, le identificavo in maniera frenetica: “una maschera sacerdotale; un albero in fiamme; la luna piena che si riflette sul mare; il mio trionfo, nelle vesti di un antico condottiero”. Avevo sette o otto anni penso. Le immagini erano in continuo movimento e le riconoscevo decidendole, le decidevo dicendo dentro di me la prima parola che mi veniva in mente, in automatico. Non guidavo l’identificazione delle forme, tutto stava nel non forzare la loro comparsa, nel permettergli di manifestarsi da sole. Certi scenari duravano un secondo, altri erano molto lunghi e si evolvevano spostandosi, soprattutto le maschere avevano la forza di imporsi, di permanere per più tempo, le vedevo avvicinarsi, spesso in diagonale, o allontanarsi, e man mano si svelavano maggiori dettagli, acquisivano spessore ed erano storie e simboli, e non più immagini. Ho visto migliaia di maschere sdraiato sulla sabbia bollente in pieno sole. Maschere-guida, maschere-demone, maschere-me stesso, maschere mitiche, maschere-folletto. A volte inquietanti nell’inespressività, gli occhi due pozzi neri, la bocca una linea scavata nel legno, nessun naso, un profilo affusolato. A volte invece ghignavano, per lo più con cattiveria. Ho sempre saputo che le maschere ghignanti erano le più deboli, spiritelli, geni dei cespugli e degli acquitrini oppure di festività, soprattutto di remoti carnevali agrari, di riti popolari contadini per la fertilità o per l’arrivo della primavera. Non ho mai visto maschere piangenti o sorridenti. Le maschere inespressive erano più forti, soggetti elementari, più profondi, più divini e non magici, come invece i ghignanti. Un ghignante al massimo avrebbe potuto fare un incantesimo dispettoso o scatenare un’ebbrezza collettiva. Un inespressivo poteva dare la morte. Era la mia morte, o la morte del mondo, del reale. Allora avevo una fede incrollabile e del tutto spontanea nel fatto che io fossi il reale, che non ci fosse mondo prescindendo da me. Tutte le maschere inespressive non erano altro che sfaccettature o articolazioni di un solo soggetto, lo chiamavo Lo sconosciuto. Aveva un aspetto ieratico, oppure rimandava più al fato, alla necessità, che in un certo senso identificavo con la mia stessa vita, oppure appunto con la morte.»

Fu allora che forse incontrai Iddio, ma non lo riconobbi.

Andrea Zandomeneghi fotografato da Carlo Zei


Andrea Zandomeneghi abita a Capalbio. E’ stato tra i direttori della rivista letteraria Crapula e ha pubblicato articoli e racconti su varie antologie.

Andrea Zandomeneghi