Piccioni
Lo svegliavano i piccioni, alla mattina. Un suono che gli faceva pensare alla parola godere. Ma godere con tutte le implicazioni moralistiche che fosse possibile assegnare a questa parola. Tutte. Come l’immagine delle lenzuola sfatte dei genitori di Kafka, a sentir Kafka, o come i suoni dei genitori di Tutte-le-Fortune, dei loro amplessi, uditi una notte. Qualcosa di sbagliato, di ferino, di lubrico.
Allora lui scendeva dal letto a castello che quel suono di piccioni era insopportabile per il loro accordarsi con i pensieri animali che pure lo agitavano al mattino.
Scendeva dal letto dunque e apriva la finestra che affacciava sul balcone, luogo dell’amore dei piccioni, e batteva forte le mani, alle volte accompagnando quel gesto con dei poco convinti: Sciò. Così li scacciava e a quel punto si distendeva sul materasso al piano terra, sotto al letto a castello e là restava, aspettando che anche lei si risvegliasse o solo di riaddormentarsi e dormire qualche ora ancora.
A volte i piccioni ricominciavano a fornicare nel momento esatto in cui Tutte-le-Fortune tornava a distendersi e quei giorni cominciavano male, sbagliati e tragici. I piccioni e la loro monogamia e la loro libido rappresentavano nella sua mente lo scandalo, uno scandalo che gli entrava in casa, nel cervello, nelle ore mattutine, che erano le ore che più amava, ma anche le più decisive. Lei definiva il suono dei piccioni come l’osceno e lui non avrebbe potuto trovare espressione migliore. Osceno, era la parola.