Della fame e della fama

Fotografia di Isabella Soulard

Esci dal grigio. Vieni anche tu al Sogno-Show... Questo messaggio lo trovai stampato a caratteri di scatola sul volantino pubblicitario che di primo mattino mi venne cacciato sotto il braccio da un cosiddetto uomo-sandwich: possessore, oltre che di una faccia mal truccata da clown, allegra come un surgelato reparto pesce di altura, anche di un cappello a cilindro pittato di stelle e strisce.
Avevo fame, avevo sonno ed ero l’infreddolito reduce da una notte al “Grand Hôtel” della stazione. Ma non c’era stato modo di chiudere occhio causa i controlli della Polizia...
Che ci fai qua?
Aspetto il treno.
Quale treno?
Un treno.
Ce l’hai il biglietto?
La biglietteria è chiusa.
Dai, fatti un giro

Quando non era stata la Polizia, era stato l’“onorevole”, tipo sui sessanta, in pigiama ciabatte e cappotto. Si diceva che anni prima si fosse candidato alle elezioni ottenendo una sola preferenza. “Non sono stato io!” ripeteva quello straziandosi e straziando anche noi, che si era lì a cercare di far passare la notte, ma era evidente che a suo tempo non era stato creduto.
Adesso avrei voluto solo sbattermi in pancia un cappuccino con brioche. Non intendevo darmi pace fino a quando non ce l’avessi fatta. Più tardi avrei cercato di recuperare un po’ il sonno su una panchina dei giardinetti. Non avevo idea di cosa quel volantino fosse; a istinto parlava di cose lontane anni luce, ma lo stesso mi venne curiosità di chiedere al tipo che roba fosse.
“Televisione” rispose.
“Interessante” dissi tanto per dire; intanto mi cercavo in tasca le sigarette sapendo che non ve le avrei trovate. 
“Non è che hai una sigaretta?”
“Il tabaccaio è là.” 
Mezzo isolato dopo rinnovai la richiesta a uno con una faccia da direttore di banca che mi regalò il suo mezzo pacchetto di MS. 
Ciccando la prima della giornata finii di leggere il volantino dov’era scritto che presentandosi a metà mattina al cinema Fulgor si poteva partecipare alla selezione per fare pubblico in un talk-show, uno spettacolo di chiacchiere televisive che una rete privata avrebbe ripreso nel pomeriggio. Seguivano l’indirizzo e i numeri di telefono e fax. 
Conoscevo il posto: un cinema chiuso sprangato da anni. A suo tempo vi si proiettavano pellicole che risultavano essere poi sempre la stessa, dove gli interpreti, ancor sempre gli stessi, avevano la particolarità di arrivare presto a liberarsi degli indumenti intimi. Trovavo curioso che l’avessero rimesso a nuovo per farne un posto dove si fa televisione. 
Non avevo altro da fare e mezz’ora dopo ero lì davanti, intruppato con innumerevoli altri. A guardia dell’ingresso avevano messo un marcantonio alto due metri incuoiato di nero che se ne stava davanti alla porta piantato con le gambe a compasso e aveva sulla faccia un sorriso poco rassicurante. Sugli specchi dei suoi occhiali da cattivo si riflettevano i volti delle ragazze più intraprendenti che di volta in volta gli domandavano come si chiamasse, se avesse la fidanzata; molte gli chiedevano di Vittorino Sogno, il conduttore dello show, se era vero che fra lui e Màrica, la sua compagna, fosse tutto finito. Lui però si limitava a sorridere. 
Girava voce che allo show avrebbe partecipato Vasso Ovale. Non sapevo chi fosse, mai sentito nominare. Una ragazza dallo sguardo da cane danese, che mi premeva contro la schiena con lo spigolo della sua borsetta, mi disse che era stato un cantante abbastanza famoso e già che c’era si offrì di mostrarmi la sua collezione di autografi. 
Verso le dieci eravamo tutti ancora lì. Cominciavo a pentirmi di non essere andato in cerca di una panchina ai giardinetti, quando all’improvviso le porte del Fulgor vennero aperte e tutti quanti noi - tutti insieme - ci spingemmo avanti verso l’ingresso. 
Qui trovammo un’altro sbarramento. Un tipo dell’organizzazione in jeans e maglietta con la scritta STUPID, imperturbabile nella sua faccia da addetto alle cucine, guardava i convenuti uno ad uno spostandoli a manate. Se si veniva spinti a destra voleva dire che si rimaneva fuori, esclusi dallo show. 
La ragazza che prima era dietro di me e che a forza di spingere era riuscita a passarmi avanti, quando venne ricacciata indietro si mise a piangere dicendo: “La mia analista è a un congresso, non potete farmi questo”.
Al diavolo cappuccino e brioche! Forse il modo più rapido per togliersi da lì era farsi scartare senza opporre resistenza, ma quando io e il selezionatore ci trovammo uno di fronte all’altro, questi si fermò, inarcò un sopracciglio e chiamò una ragazza, che mi venne incontro con il suo nome, Bernardette, stampigliato su un cartellino appuntato alla giacca del tailleur. Non erano tanto i capelli biondi e lisci di questa, o gli occhi azzurri che denunciavano ascendenze longobarde, quanto il suo profumo a stordirmi. Mezzo inebriato mi lasciai condurre giù per i sotterranei del Fulgor, dove tutto era bianco, luminoso e odorava di nuovo.
“Lo aspettavamo più tardi” disse Bernardette. “Com’è stato il volo?”
“Orribile.” 
“Turbolenze sull’Atlantico?”
“Anche.”
“Soffre l’aereo?”
“Anche.”
“E come fa?”
“Bisogna pur vivere, signorina.”
“Mi chiami Bernardette.”
“Bisogna pur vivere, signorina Bernardette.”
Mi venne assegnato il camerino numero 27 e anche lì dentro tutto era bianco e luminoso e ci sarebbero voluti occhiali da ghiacciaio per resistere. L’inventario comprendeva un divanetto, uno specchio e un telefono.
“Desidera qualcosa?”
“Un cappuccino e brioche.”
“Le faccio portare i giornali?”
“Se le fa piacere...”
Mentre aspettavo finii per addormentai sul divanetto per risvegliai con nelle orecchie il suono di qualcuno che bussava alla porta. Come dall’oltretomba una voce annunciò: “Fra un quarto d’ora si comincia”.
Comincia? Che cosa comincia?!
Potevo aver dormito alcuni minuti, come essere rimasto in quel cubicolo bianco ibernato per millenni; di fatto trascorsero minuti senza che sapessi rispondere alla più semplice delle domande: io che cazzo ci faccio qui? 
Avrei voluto filarmene via come un elettricista, ma quando stavo per decidermi Bernerdette entrò nel camerino. Lei, con quel sorriso da boero sulle labbra, disse: “Visto che i suoi bagagli non sono arrivati, mi sono permessa di procurarle qualcosa.”
Mi ritrovai così dentro a un paio di pantaloni e una camicia, stretto al collo da una cravatta e poi insaccato in una giacca di tweed che di spalle mi andava un po’ stretta. Le scarpe invece erano di un paio di numeri più grosse. Nemmeno il tempo di vedermi allo specchio che Bernardette già mi sospingeva al trucco dove, sbattuto su una poltrona, una specie di marziano cominciò a spennellarmi il viso di schifezze. 
“Emozionato?” mi chiese Bernardette.
“Un po’.”
“Non si preoccupi, le domande le fa Vittorino. Ha molta stima del suo lavoro.” 
Lavoro?! Quale lavoro?!
“Ha qualche richiesta da farmi?”
“Sì, cosa devo fare?”
“Niente. Lei è a un talk-show. Si preoccupi delle risposte, che devono essere brevi, semplici e lineari.”
Ora o mai più. Avevo una fame disperata e se dovevo essere cacciato a pedate, avrei preferito farlo con qualcosa nello stomaco. 
“Potrei avere un cappuccino con brioche?”
“Dobbiamo microfonarla.”
Venni così rimesso in piedi, ulteriormente spennellato e spolverato; sotto il bavero della giacca mi fu attaccato uno scarafaggio il cui filo mi correva lungo la schiena per terminare a una scatoletta appesa alla cintura. Quest’ultimo oggetto mi convinse a gettare la maschera: “Forse non sono quello che credete”.
“Siamo tutti un po’ nervosi prima di andare in scena” disse Bernadette. 
E mi spinsero verso il palco fra due ali di gente che mi dava pacche d’incoraggiamento. Quella che ricevetti sul culo fu Bernadette a darmela. Mi girai e lei mi fece l’occhiolino. 
“In bocca al lupo, professore”.
Professore?! Professore di che cosa?!

Vittorino Sogno era al centro del palcoscenico, circondato da telecamere e da gente che di continuo gli faceva segno o che su lavagnette gli scriveva messaggi del tipo: guarda in qua, fallo sedere più in là, aggiustati la manica della giacca, fallo sorridere almeno una volta. Il conduttore mi aspettava con un sorriso da gatto indicando una sedia in paglia di Vienna.
Il mio posto era fra le spalle di una cuoca che era riuscita a dimagrire di cinquanta chili in due mesi e uno che chiamavano il tuttologo. Quest’ultimo nel guardarmi mi sorrise e poi, rivolto a Vittorino Sogno disse: “Se ne dicono delle belle sul professore”.
Ma si stava riferendo a me?
Il conduttore lo pregò di spiegare il motivo del suo sorriso e quello riferì che su un giornale era stato pubblicato un servizio fotografico dov’ero ritratto in atteggiamento intimo con una certa Micaela Sakura. Vittorino Sogno, com’era sua abitudine, non mancò di cogliere al volo la battuta per chiedermi come si sposassero i miei interessi con i miei impegni mondani con la signora in oggetto.
Interessi?! Quali interessi?!
Sgranai gli occhi e fu allora che Vittorino Sogno disse: “La riservatezza del professore è proverbiale”, passando quindi a salutare la scrittrice paralitica il cui libro Le gambe della memoria era, oltre che ai primi posti nelle classifiche dei best-seller, al momento si trovava bene in vista tra le sue mani, che quelle no, paralitiche non erano. Un paio di telecamere ci carrellarono sopra moltiplicandone la copertina per chissà quanti schermi televisivi.
Davanti a me comparve Bernardette con la lavagnetta con su scritto: Dica che l’ha letto e che l’ha commosso.
Una luce mi si sparò in faccia e mentre l’occhio della telecamera mi cercava, io, per non deluderla, dissi: “Commosso”.

Nel secondo segmento dello spettacolo Vittorino Sogno prese una sedia e mi si venne accanto. Di nuovo le telecamere, tre stavolta, e poi le luci, che mi facevano sentire come un pollo nel microonde. 
“Non trovo la sua scheda” disse, “vuol essere così cortese da presentarsi da sé al nostro pubblico?”.
“Io?!”
Guardai verso Bernardette, che da dietro il nido della regia scriveva sulla lavagnetta quello che forse avrei dovuto dire, ma era però troppo distante.
“I suoi studi sui crotali” disse Vittorino Sogno.
“Crota cosa!?”
“I serpenti a sonagli… Secondo lo studio che ha pubblicato su Nature and Plasure, i serpenti a sonagli comunicano suonando.”
“Ah, suonano?!”
“Questo è quello che afferma lei.”
“Beh, suonano...”
“Prevede che in futuro noi…”
“Ma, forse anche i cani.”
“I cani!?”
“Sì, ma loro li facciamo cantare e basta.”
“Un applauso per il nostro ospite…” disse allora Vittorino Sogno. “Contiamo di averla ancora con noi domani sera” e passò a intervistare un altro ospite.
Durante la pausa della pubblicità parte del pubblico si alzò, dirigendosi con scatto del centometrista verso il bar dell’ingresso. Altri pressarono di richieste d’autografo un’attrice presente tra le pellicce della prima fila. Il resto erano telefonini che squillavano e gente che si sbracciava facendosi segno. Una signora in platea, ingioiellata fin nei capelli, da un pezzo mi fissava con negli occhi uno sguardo da acquario tropicale. La guardai a mia volta e visto che sembrava non succedere niente provai a sorriderle. Quella come indispettita si alzò e sparì. Poco dopo qualcuno mi porse un biglietto dove era scritto: “Tu sei il figlio che ho sempre desiderato. Addio per sempre”.

Riccardo Subri

 

Riccardo Subri