Per caso

fotografia di Carlo Zei

Ti ho rincontrato per caso una domenica mattina in vetta a Montmartre, davanti  a quell’enorme e brutta chiesa. Aveva nevicato ovunque in Francia e Parigi sembrava  Copenhagen, il mare scintillava al di là del Bois de Vincennes,  dei grandi iceberg si staccavano dalla collina di Meudon per andare a naufragare a Chatelet. 
Il sole appena uscito dava energia ai coraggiosi turisti che salivano le scale e ho avuto l’impressione di essere anch’io di passaggio in una città sconosciuta, e di camminare senza meta, sfidando un venticello velenoso che raschiava ogni centimetro di pelle scoperta.
Tenevi per mano un ragazzino che ti somigliava e ti guardava pieno di ammirazione,  come se tu fossi splendido. Ed  era vero, gli uomini come te restano belli per tutta la vita. 
Subito mi sono girata per ridiscendere gli scalini, ma era ormai troppo tardi. Mi hai chiamato, sorridevi rincuorato come se tu mi stessi aspettando da chissà quanto tempo. Che capacità straordinaria hai di nascondere le tue emozioni! Subito l’antica gelosia mi è rimontata in gola e mi sono augurata che la madre del bambino fosse morta. Ho avuto paura di vederla apparire dal dietro, leggera ed elegante, bellissima, come in un incubo.
Non è arrivato nessuno, ma ciò non ha facilitato  le cose. Hai cominciato a parlare, con il cappello abbassato suoi tuoi occhi torbidi. Che fortuna avevo avuto di non vederli per tutti questi anni ! E adesso era finita. Ho capito dai movimenti del tuo corpo che eri solo, e che non ti sarebbe dispiaciuto ricominciare. 
Ciò mi ha lusingata, naturalmente, però i dadi tra di noi sono stati tirati molto tempo fa e sarò sempre io quella che chiede, anche quando sei tu a bussare per primo alla porta. Ti servi di quello che ti appartiene già. 
Il ragazzetto ha capito subito il problema, e  mi ha guardato pieno di odio, riconoscendo in me una rivale. Anche questo mi ha lusingata. Non credo alle differenze di età, è la forza della personalità che conta  e quel bambino ne aveva da vendere.
Ci siamo diretti verso un caffè  chiacchierando,  camminando lentamente.  Ti ho riassunto  in breve la mia vita attuale e mi  ascoltavi appena, dando un calcio a un piccione gelato sul marciapiede, uno sguardo all’orologio. Allora mi sono zittita nel bel mezzo di una frase. Non te ne sei accorto e hai cominciato spiegarmi tu, con passione e profusione, alcuni dei  tuoi problemi di lavoro del momento. 
Avrei  potuto scappare via  con un bacetto sulla guancia, lasciandoti forse un po’ sorpreso. Però mi conosco troppo bene. Dopo il primo attimo di trionfo, avrei languito per giorni e giorni lasciandoti messaggi di pentimento sulla segreteria. Non è possibile cambiare, e con l’età ho imparato almeno a prendere qualche precauzione. 
Siamo entrati in un bar deserto dove le nostre voci risuonavano come in un film, tutto sembrava falso, le antiche decorazioni di legno dorato, i vetri splendenti ripuliti dal freddo. Abbiamo bevuto una cioccolata  e poi un caffè, nello spostare le seggiole e i cappotti le nostre mani si sono sfiorate e quando il bambino è andato in bagno ne hai approfittato per chiedermi un appuntamento per la sera. Avevo già un altro impegno, ma ho risposto di si. Mi girava la testa come se fosse attraversata da una corrente elettrica, non riuscivo a credere che la mia vita potesse ancora cambiare  direzione.

Si era rimesso a nevicare, i fiocchi formavano turbini di arcobaleni, avresti potuto anche lasciarmi, adesso, felice per la speranza di rivederti tra poche ore. Poi tuo figlio  è ritornato e ti ha detto qualcosa nell’orecchio. Mentre parlava mi fissavi, come se la cosa mi riguardasse. Davanti a te divento fragile e tutto mi ferisce. Ho scambiato l’ostilità del bambino per la tua, ho pensato che l’appuntamento di poco prima  fosse solo un capriccio, che non avrebbe sopravvissuto al lungo pomeriggio domenicale. Ho immaginato che te ne fossi già pentito, vedendo la luce cruda della neve attraversare i vetri e accarezzare le mie rughe con le sue lunghe dita taglienti. Avrei preferito andarmene perché tu non rischi di annoiarti di già.
Invece mi hai trattenuta, ripetendo una frase che avevo detto in strada, quando pensavo che non mi stessi ascoltando.
La possibilità che tu fossi  molto differente da come ti avevo lasciato diversi anni prima, mi ha sorpreso all’improvviso, provocandomi una sorta di disgusto.
Ci siamo alzati e hai voluto accompagnarmi davanti alla fermata del Metro che si era ricoperta di una nuova coltre di bianco. Nevicava forte come in alta montagna, gli alberi della piazza e le case sparivano portati via da una spirale di irrealtà. 
Il vento ridisegnava la tua figura, e ho notato  finalmente come avessi l’ aria vecchia e triste. La luce insolente che emanava dalla tua persona e che aveva avvelenato i miei ricordi, scavato le mie notti bianche, offuscato tutte le mattine di due lunghi anni di lutto, si era spenta.
Forse, più semplicemente, non ti amavo più.
Era stato necessario incontrarti di nuovo, e per caso, per essere del tutto libera.
L’appuntamento della sera appariva sempre più improbabile, aspettavo il momento propizio per salutarti facendo finta di dimenticare di darti il mio numero di telefono. Anche tu avresti fatto finta e  questa strana mattina di domenica sarebbe finita senza conseguenze. Ma tu parlavi ancora e il ragazzino aveva trovato dei compagni sulla piazza per giocare.  Mi facevi domande su amici comuni, sembrava volessi trattenermi, per paura che potessi scappare.
Non riuscivo a credere che tu fossi cambiato fino a questo punto e per la prima volta della mia vita ho avuto pietà di te. Mi ha fatto ancora più male che se fosse stato per me stessa. Avrei preferito mille volte sentirmi straziata dalla tua indifferenza, avrei preferito tornare a casa  piangendo, come prima, per il timore di non rivederti più. Così quando me lo hai domandato ti ho dato un numero di telefono falso, cambiando solo una cifra, come se fosse un lapsus.
Faceva molto freddo e non avevo guanti, le mie mani cominciavano a diventare blu. Mi hai porto i tuoi dicendo che te li  avrei resi,  stasera. Avevi un sorriso triste, come se tu sapessi che non li avresti mai più rivisti.
Li ho infilati lentamente, assaporando la dolcezza del contatto con la fodera usata, e il calore che ci avevi lasciato. Il tuo profumo delicato è salito fino al mio viso avvolgendolo di una nuvola di umidità. A questo punto tutto è cambiato un'altra volta, un’emozione fisica si è impossessata di me, non sapevo se era buona o cattiva.

Smette di nevicare come in una scena di teatro, per amplificare lo spazio intorno a noi, un sole di vetro, quasi verde, cambia il colore del cielo. Adesso esito a sparire nel Metrò, verso il basso, e sembra che tu lo capisca. La stessa incertezza appare nei tuoi occhi, li giri e non mi guardi per dire che non serve a niente che rientri, possiamo rimanere insieme, per aspettare stasera. 

 

Cristina Guarducci

---

Cristina Guarducci è nata a Firenze, vissuta a Prato, ha studiato psicologia. Dopo una lunga permanenza a Parigi (dove è rimasta per quasi trent'anni) è  tornata a vivere a Prato, ma con molti andirivieni. Ha pubblicato tre romanzi con l’editore Fazi: "Mitologia di Famiglia”, "Nonchalance”, "Malefica luna di agosto".