Idillio

fotografia di Bärbel Reinhard

Di lui  mi piacevano i dettagli: la grana della pelle nella parte indifesa del braccio, sotto il bicipite abbronzato, dove diventa chiara e lucida, impastata da un colore lunare. Sembrava facile affondarci i denti e succhiarla, o passarci castamente le dita per farla rabbrividire. Teneva  le braccia sollevate  offrendo alla vista questa parte indecente del suo corpo, la peluria leggera delle ascelle si arricciava al vento e stavo  con le narici in agguato, sperando che una vena del suo odore arrivasse fino a me.
Sono una cacciatrice, capace di stare immobile per ore nello stesso posto, e ritornare un giorno dopo l’altro per studiare la mia preda. 
Per questo ero nel bar più brutto dell’isola, che lui sceglieva probabilmente per i prezzi. Il colore e la forma  del costume da bagno rivelavano la  bassa estrazione sociale. Dal modo di ridere poi sembrava poco intelligente. Non leggeva mai niente, neanche la gazzetta dello sport, lasciava pendere un filo dalle mani e ogni tanto faceva schizzare con indolenza l’amo davanti a sé. Parlava con un rozzo amico oppure stava semplicemente immobile, gli occhi vaganti, lenti, immersi nella loro propria stupidità.
Cercavo di accentuare tutti i suoi lati negativi per farmi coraggio, perché globalmente era, confrontato a me, di una superiorità schiacciante. Immensamente più giovane, inverosimilmente più bello. Anche la volgarità aumentava il suo fascino. 
Questa disparità mi atterriva e mi eccitava al tempo stesso. Sapevo che andavo incontro alla morte, cioè al ridicolo. Ma una forza irresistibile mi stava spingendo verso il basso, come se la voluttà di umiliarmi facesse parte dell’attrazione che sentivo per lui. Pensai che per meritarmelo, appunto, dovevo abbandonare ogni dignità. Una donna matura  che si perde per un uomo  giovane ispira tenerezza, l’amore per la bellezza ha qualcosa di talmente nobile che purifica le azioni  più sordide. Lui era cosi’ attraente da giustificare qualsiasi follia, chi mi avesse criticato sarebbe stato ridicolo e ingiusto, come chi volesse accusare un albero abbattuto da un uragano. 
Il ciclone appunto stava seduto tranquillo difronte al porto sorseggiando bibite. Chissà, forse faceva un pesante lavoro manuale durante l’anno –muratore o falegname- e per lui  vacanza voleva dire immobilità.  Sembrava che bastasse a sé stesso, che fosse l’origine e il fine della sua propria energia. La mia invece se ne stava andando risucchiata da lui, il cui solo sguardo mi dissanguava.
Cominciai a nascondermi dai miei amici, inventando scuse per assentarmi la mattina, cercando giustificazioni per sedermi sempre a quel solito, sudicio bar.
Mi tremavano le gambe quando spostavo la seggiola, e ordinavo il caffè con un filo di voce. Cominciai a credere che il vecchio padrone zoppo e tutti i clienti vedessero chiaramente i miei scopi, e mi prendessero in giro. Più cercavo di essere  segreta, più mi sembrava che tutti mi stessero svergognando, che ci fossero già scherzi su di me che giravano sull’isola. 
Mi sembro’ che il sorriso del cameriere fosse ironico quando cambiai di posto per mettermi da un lato dove la vista sul ragazzo fosse più panoramica. Non volevo farmi accompagnare da una amica, che avrebbe reso la mia presenza più decente: era una cosa tra me e lui, e un intruso avrebbe potuto sciupare tutto. Volevo giungere  all’estremo, ero pronta a farmi sputare in faccia, a farmi insultare. Arrivavo al bar con la testa già bassa, resa docile dalla potenza del mio desiderio contro il quale non avevo la forza di combattere.   
Questo stesso desiderio, aumentando in modo smisurato, mi avvicinava a lui e mi dava coraggio, rinforzando la fiducia in me stessa.  Perché era impossibile che restasse insoddisfatto. Era impossibile che questo bisogno gigantesco, che sentivo crescere smisuratamente non avesse origine in qualcosa di vero, nell’attrazione che anche lui avrebbe provato per me non appena si fosse reso conto che esistevo. Doveva esserci stato tra noi uno shock di molecole, di cui io mi ero accorta per prima. 
L’inevitabilità del nostro contatto futuro mi faceva paura. Mi chiedevo se avrei avuto la forza di sopportarne l’impatto e certe mattine lungi da cercare di avvicinarmi a lui, che ogni tanto distrattamente mi attraversava con lo sguardo, cercavo di evitarlo.
Tutta la gente, le barche e i pesci e i gatti randagi dell’isola, perfino le  radici della terra che affonda dentro il mare avrebbero tremato nel momento in cui i nostri corpi si fossero avvicinati. La leggerezza delle onde e l’elettricità del cielo, gli specchi nelle foglie degli eucalipti, il fiume rosa della bouganville che danza fra le case.  Sarebbe stato di giorno, il caldo avrebbe annientato la nostra coscienza, oppure di notte, sbaragliati dalla violenza dell’istinto. 
Queste riflessioni duravano fino a mezzogiorno, ora in cui il povero gozzo dei suoi amici veniva a prenderlo per andare a fare il bagno. Anche io me ne andavo con i miei, che mi trovavano allora straordinariamente allegra, animata da  un fuoco metallico, aereo e inestinguibile, che dava una grazia speciale ai miei gesti. Niente poteva contrariarmi, mettettevo pace ai litigi e accettavo volentieri i compiti più fastidiosi. Nessuno  immaginava come ciò fosse originato da una sensazione di superiorità. Mi sentivo al di sopra di tutti e di tutto, come una stella, grazie al mio appuntamento mattutino.
Lui semisdraiato davanti alla sua bibita con i bicipiti sollevati all’indietro e un’attitudine di resa, si stava  abbandonando a me. La sua pancia lunare tesa e lucida era percorsa dai brividi. Non avevo bisogno di nient’altro, mi bastavano i suoi sguardi assenti che mi attraversavano quando la testa si muoveva meccanicamente  per via di una mosca, o del vento. Era quella la distanza giusta per me. Egli arrivava puntuale come una mamma e ripartiva all’ora per la quale mi ero già preparata. Un’adorazione tranquilla,  distrutta dall’avvenimento che ha fatto precipitare tutto. 
Il mio cappello è volato via. I miei fantastici capelli biondi, arma segreta che avevo conservato per le emergenze, si sono sparsi improvisamente intorno a me come un uragano attirando la sua ammirazione imprevista. Si è buttato nell’acqua melmosa del porto per recuperare il mio bene. E’ uscito ricoperto da un velo d’argento, il suo cuore palpitava sotto la pelle come un animale vivo che spingeva dal di dentro per uscire. Le nostre mani si sono sfiorate nello scambio del cappello, il suo sorriso ha confuso il mio e il suo sguardo diventato diretto, un fuoco nero, ha minacciato di distruggermi. 
Ho creduto che fosse il primo  secondo della reazione a catena inevitabile, come lo scoppio della bomba atomica, per la quale non ero ancora pronta. 
Ho fatto l’errore di tirami indietro per vanità, credendo la battaglia ormai vinta e stravinta, evitando di schiacciarlo per generosità,  fingendo di volergli dare il tempo di riflettere. Ho indietreggiato con il cappello in mano, sorridendo leggermente, come infastidita di doverlo ringraziare. Ho lasciato sbandare i miei capelli al vento, pensandoli ormai superflui. Ho aspettato il seguito ineluttabile degli avvenimenti con un disgusto di bambina viziata, a cui le cose cadono troppo facilmente in grembo. Ho avuto la tracotanza di trovargli per un attimo qualche difetto: le dita delle mani un po’ corte, le narici leggermente troppo svasate.  Tutto si paga e soprattutto l’orgoglio. Quante volte in seguito ho rifatto quella scena in sogno, come una commedia di cui fossi l’autrice, la protagonista, lo sfondo e il pubblico, quante volte! Fino a portarla alla perfezione assoluta della vita vera: naturale e intensa, piena di conseguenze irreversibili. 
Perché la fantasia è l’arma degli inetti, di coloro che sbagliano scalino e inciampano, nella vita vera. Di coloro che non si alzano dalla seggiola  e lasciano che il fiume scorra loro  sotto i piedi con il cadavere del nemico, il bambino che affoga, la barca della salvezza, e la possibilità di ritrovarsi sull’altra sponda. Cosi’ io ho lasciato perdere per superficialità, per inesperienza, per non aver capito che c’era  una sola possibiltà  in quell’estate in quel momento, in quel mare, in quel caffè e con quell’uomo, che mi era stata offerta. 
Il vento mi aveva dato una mano scompigliandomi i capelli, creando quel movimento di vita dentro il quale avrei dovuto buttarmi  come un pesce nella corrente... il giovanotto mi ha reso il cappello senza che gli restituissi nient’altro che uno smunto sorriso di difesa. 
Pensavo che fosse consapevole anche lui del finimondo che ci stava avvolgendo ambedue, e anche lui misurasse  i gesti per trattenerlo. Pensavo che non ci fosse bisogno d’altro e tutto ormai fosse deciso, riuscito. 
Non ho voluto esagerare allora, mostrandogli come sono padrona di me stessa anche dentro la tempesta, perché è il mio elemento naturale. Ho voluto rassicurarlo perché non si spaventasse e sapesse che poteva contare su di me per mantenere le apparenze. Lo sapevamo tutti e due quello che ci sarebbe successo dopo quella mattina in cui il vento aveva fatto volare il cappello rivelando i miei capelli biondi. La vita ci aspettava al di là, una vita che sarebbe durata un secondo o un’eternità, ma il tempo non aveva importanza,  perché quello che importa è il compimento.  Portare le cose là dove era previsto che andassero, e che la vita sia vita e non solo un susseguirsi disordinato di molecole. 
Perché quello che è stato annunciato dalle cerimonie dei popoli e dalle cattedrali costruite con secoli di fatiche, dai libri di filosofia e dalla finezza delle statue di marmo,  dallo splendore degli affreschi,  dall’irrequietezza della musica e dalla perfezione della poesia, si realizzi finalmente. Perché non sia stato inutile mangiare e crescere e avere il morbillo e andare a scuola.
Finalmente avrei capito, tutto mi sarebbe stato spiegato.           
Sarei entrata nella luce vera, che conserva le ombre e i colori, accarezza le forme e modella le immagini. Sapevo che la meschinità  delle valutazioni terrestri dell’età e dell’aspetto fisico sarebbe bruciata nel fuoco d’oro del nostro incontro. Io so che le cose non succedono per caso, e se noi due di universi così differenti ci eravamo trovati insieme, alla stessa ora, in quel brutto bar, a contemplare l’acqua melmosa del porto ciò doveva avere un senso. Nonostante la mia riservatezza il vento aveva sciolto i legami spingendomi verso di lui. Non era un caso che egli avesse obbedito al richiamo come un cane che scatta al fischio del padrone.
Ho solo una scusa per la mia storditezza e l’ho già detta: pensavo che tutto fosse ormai compiuto. Ma lo pensavo veramente ? O è il contrario esatto? 
Forse vedendo il magma delle cose che improvvisamente si arrendeva davanti a me offrendosi perché io gli dessi un ordine, perché per la prima volta esercitassi il mio libero arbitrio, quella scintilla assegnataci alla nascita che appare come una fata nei momenti cruciali della vita, forse io non ho voluto. 
Non ho potuto addossarmi la responsabilità di una vita riuscita. Ho preferito rimanere in margine. A lato della strada vestita di stracci per chiedere l’elemosina. Ho avuto paura di montare sul cavallo alato e scavalcare le montagne. Ho avuto paura forse che i fulmini degli dei gelosi si scaricassero su di me. E’ facile essere felici per gli dei. E’ una felicità vaga e evidente, come la pioggia e il sole e il girare della terra. La felicità umana invece è violenta e insopportabile, così bassamente concreta e debordante di miele. Questa felicità li minaccia e li fa sentire insipidi e inutili, questa felicità gli dei ci invidiano cosi’ fragile e poetica e intensa e vera come loro non avranno mai. 
Non l’ho voluta, non mi è sembrato di esserne degna. Ho avuto paura che il mio corpo fosse troppo fragile per sopportarla. Ho preferito rimpiangerla, immaginare come sarebbe stata, rifare la scena che avrebbe permesso che esistesse, ricordarla fingendo che sia avvenuta davvero. Passare accanto, non bruciare viva dentro il fuoco. 
Cosi’ gli ho restituito appena il generoso sorriso che mi ha trasmesso con il cappello bagnato, bagnato lui stesso di un velo d’argento come fosse un bozzolo dal quale voleva liberarsi per me. Ha alzato ancora il braccio sopra la testa per mostrarmi quello che intuiva essere il mio punto debole, la carne perfetta per i miei denti, la strada tracciata per i brividi delle mie dita. 
Per un attimo c’è stata una distanza cosi’ corta tra noi che avrebbe reso naturale qualsiasi follia: che gli succhi il lobo dell’orecchio, che faccia scorrere la mano sull’elastico del suo costume. Ho sentito perfettamente in quel momento che tutto questo sarebbe stato accettato e permesso, desiderato. 
Avremmo potuto ansimare come cani sull’asfalto macchiato della terrazza del bar. Avremmo potuto consumare questo desiderio velocemente, malamente, senza che nessuno ci facesse caso. Le cose giuste non scioccano nessuno. I gatti ci sarebbero passati accanto annusandoci, e il vecchio padrone zoppo del bar avrebbe solo sorriso leggermente sentendoci urlare, vedendo che ci graffiavamo a vicenda per impossessarsi ognuno della pelle dell’altro, sentendo le ondate di caldo che si propagavano dai nostri lombi uniti. 
I passanti non si sarebbero neanche girati, saremmo sembrati due uccelli che gridano l’amore, due vespe che si pungono per propagare il miele. Le cose giuste non scioccano nessuno. Saremmo rimasti in terra frementi come due pesci appena usciti dal mare che boccheggiano anelando di ritornarci. Saremmo rotolati tra i tavoli come un mucchio di foglie secche cadenti dopo l’estate. Le formiche ci avrebbero ricoperti dei loro piccoli corpi lucenti, e le seggiole i gambi arrugginiti dei tavoli, i vecchi tappeti di paglia  sfilacciati ci avrebbro accolto tra loro come parte del creato. Le cose giuste esistono e basta. Per quante ore o per quanti minuti non so, ci saremmo cullati uno nel corpo dell’altro, per spengere una sete nata con la nostra nascita. Una sete che spilla come una cosa viva nel corpo di un altro, dove tutto è mescolato, corpo e spirito, bene e male a cui dobbiamo abbeverarci continuamente senza scegliere. I nostri corpi uniti avrebbero fatto scaturire una corrente di nutrimento indistruttibile.
E’ cosi’ sorprendete allora che non ce l’abbia fatta? Che sia voluta restare umana, limitata, modestamente infelice? Che l’abbia lasciato libero di consumare la sua mediocre giovinezza? 
Anche lui ha esitato lo so, anche lui,  in quel momento in cui le nostre dita si sono toccate attraverso il cappello e i nostri sguardi nudi al di là delle ciglia che sbattevano disperatamente per proteggerli, hanno danzato per un attimo avanti e indietro, sfiorandosi e lasciandosi, accarezzandosi e restando immobili a puntare l’eternità.
Forse è lui che ha distolto lo sguardo un istante prima che cominciassimo a fondere. Anche gli uomini hanno paura. Era lui l’impreparato. Forse sono arrivata troppo presto, forse poco dopo ferragosto avrebbe abbandonato spontaneamente la madre-tigre che lo possiede e sarebbe venuto a trovarmi, non ancora libero, ma già fragile, morbido, puro.
Vorrei mordermi le dita  per non sentire il dolore vero del cuore, per non sapere che sarebbe bastato qualche giorno di più,  e che forse un’altra, arrivata un po’ più tardi l’ha colto. 
Così  ho visto l’abisso  che ci fonda, ho saputo di che sozzura è fatto il mondo. Ho conosciuto il male che affonda i suoi denti di pescecane nella carne degli innocenti, la strappa e la divora meccanicamente, senza nemmeno sentirne piacere.  
Cosi’ogni giorno non riusciamo a trattenere l’energia che ci danza intorno e chiede solo di essere ammaestrata. La lasciamo esaurirsi in fulmini di rabbia e tempeste di distruzione.
Nel momento in cui il cappello è volato lontano e lui galantemente si è gettato nell’acqua melmosa del porto per recuperarlo, l’energia aveva già cominciato a disegnare arabeschi intorno a noi. Quando è uscito coperto di un velo d’argento le gocce disegnavano ai suoi piedi giardini d’oriente e animali favolosi. E quando ha allungato la mano sfiorando appena la nuvola d’oro dei miei capelli che si era sollevata per accoglierlo già le cose si erano sistemate in un cerchio perfetto.
Forse è stato quello il momento da ricordare. Forse tutto è avvenuto quando le nostre dita si sono toccate e i nostri occhi hanno gettato gli uni sugli altri le reciproche ombre. Forse è successo allora molto di più di quello che credo, si è compiuto il patto, e il seme è passato perché nasca la luce. Forse mai avrebbe potuto accadere  di più e di meglio, e tutto dopo sarebbe stato solo decadenza. 
Tengo dentro di me protetto da uno scrigno quello che è successo, incorruttibile. 

E’ stato uno strappo nel tempo, e nella mente. Attimi in cui bisogna ricominciare da capo,  perché la vernice che ricopre le cose è sciupata. In momenti come questi, che spingono al cambiamento, tutto sembra sbagliato, tutto sembra inutile e fuori posto. Non c’è più ordine né gerarchie, nessuna verità. Solo la fluidità dell’acqua del porto e il favore del vento, mentre i colori che girano nell’aria  non sanno dove posarsi.  In questo disordine, le cose restano per sempre perdute.
Ho cercato di entrare dentro l’ambiguità della  vita, nella sua continua ambivalenza, e non ci sono riuscita. Abbiamo bisogno di punti di riferimento fissi, anche se  limitano la nostra possibilità di vedere. Abbiamo bisogno di non sapere niente del paradiso, e vivere nella tranquillità dell’ignoranza. 
La scintilla del libero arbitrio è un’illusione che danza dentro un fuoco non acceso da te. Tutto era già bruciato e non potevo farci nulla. La commedia è ripartita con gli attori programmati come marionette.
Era già previsto che dopo avermi restituito il cappello, mentre  il velo d’argento sopra il suo corpo seccava nel vento, lui mi girasse le spalle,  dirigendosi  verso la barca dove lo aspettavano i suoi amici, sorpresi che avesse perso tutto quel tempo ad aiutare  una signora un po’ strana, rimasta immobile sulla banchina  a guardarlo che saliva a bordo,  ancora incantata ad ascoltare  il rumore del motore che rimbombava  sull’acqua,  quando  la sagoma del gozzo è scomparsa all’orizzonte.

Cristina Guarducci