Toto erras via

Con i rotoloni asciugatutto si asciuga veramente di tutto, anche le lacrime. 
Guglielmo se n’era appena andato e io restavo seduta in un angolo del letto, a farmi scendere le lacrime più calde del mondo.
L’avevo visto rispondere con aria preoccupata alla telefonata (a quella telefonata), l’avevo visto rinchiudersi nel bagno a discutere (una delle cose più odiose che potesse farmi), l’avevo visto uscire con la faccia rassegnata che non m’aspettavo altro, l’avevo visto rimettere in valigia pigiama, camicia, spazzolino, l’avevo visto salutarmi con un bacio sulla guancia e gli occhi bassi.
M’aveva detto che sua figlia, la più piccola, stava male, che sua moglie era preoccupata e gli chiedeva di tornare a casa, che lei gli aveva rinfacciato che quel convegno non poteva essere così importante, più importante di sua figlia, che non poteva lavorare tutta la settimana e lasciarla sola anche nel weekend, che ormai a casa non c’era mai.
Io non ho provato neanche a ribattergli che quello era il nostro weekend, che lo aspettavo da un mese, che avevo trascorso il giorno precedente dal parrucchiere e dall’estetista per lui, che ero passata al negozio di intimo e avevo speso una fortuna per lui, che avevo percorso duecento chilometri da sola in macchina attraverso il nulla per lui, che avevo disdetto tutti gli appuntamenti del mondo per ritagliarmi quei due giorni con lui.
Mi farfugliò che la camera d’hotel (che era la suite, precisò), era pagata per tutto il fine settimana e potevo restare fin quanto volevo, che potevo ordinare la colazione in camera, che avevo la piscina riscaldata compresa nel prezzo, che era pagata anche la cena al ristorantino romantico vista mare giù al porto.
Gli avrei voluto urlare in faccia che non me ne facevo niente della suite se lui non c’era, che non me ne facevo niente della colazione in camera se lui non c’era, che non me ne facevo niente della cenetta romantica se lui non c’era. E che mi mancava il rotolone asciugatutto che avevo a casa mia, a duecento chilometri di distanza.
Trascorsi il resto del sabato a ciondolare per l’hotel e sul lungomare, sferzata dal vento gelido, ma riscaldata dai raggi del sole autunnale. Valutai di andare a fare un bagno in piscina, perché il mare era ghiacciato di quei tempi. Ma la voglia sfumò.
Probabilmente ero l’unica cliente nel raggio di chilometri, ed era anche logico e plausibile considerando che era novembre. Mangiai un’insalata di arance al ristorante dell’hotel, da sola, non c’era nessun’altro a parte me e il cameriere.
Mi riposai nel primo pomeriggio distesa in diagonale sul lettone della nostra camera (cioè, della suite) per occupare tutto lo spazio a disposizione. Decisi che me ne sarei tornata a casa per non impazzire.
Caricai il trolley in auto e partii senza pensarci, con il cameriere inappuntabile che mi augurava buon rientro anticipato dall’ingresso del parcheggio.
Mi lasciai il mare e la felicità alle spalle.
La strada si estendeva in mezzo al niente in un territorio brullo, disabitato, selvatico.
Calcolai che avrei impiegato due ore e mezzo, forse tre sommando anche il tempo di una pausa.
Sarei riuscita a stare a casa per ora di cena, ad infilarmi nel letto, nel mio letto, per le dieci.
Era l’unico desiderio che avevo, in quel momento.
Mi meravigliai di me stessa per la lucidità e la forza d’animo che stavo dimostrando; qualche anno prima, quando era iniziata la storia con Guglielmo, sarei stata colta da una crisi isterica o qualcosa del genere.
Probabilmente avrei trascorso tutto il tempo a pensare a lui, al suo rientro in famiglia, a immaginarmi la moglie che se lo sbaciucchiava sulla porta di casa. A fantasticare su un riavvicinamento, su un ritorno del desiderio, sebbene Guglielmo mi continuasse ad assicurare che il suo matrimonio fosse bianco, candido come un lenzuolo appena lavato, e così da un bel pezzo, da prima che mi incontrasse.
Mi maledissi per non aver usato il bagno prima di partire. Tra non molto avrei avuto bisogno di una sosta toilette, quindi avrei perso altro tempo, e sarei arrivata più tardi. La cosa mi fece imbestialire.
Viaggiai per una mezzora e incrociai soltanto un paio di auto. Cercai di far mente locale sul viaggio di andata e mi resi conto che non era stato diverso.
Senza girarci troppo attorno, già mi scappava, ma avevo ancora un po’ di autonomia e non avevo intenzione di fermarmi così presto. Potevo trattenerla ancora.
Cercai di focalizzare anche le aree di servizio sulla strada, ma non riuscii a ricordarmene nessuna. Possibile non ce ne fossero?
Resistetti un altro quarto d’ora poi decisi che mi sarei fermata appena ne avrei avuto la possibilità, alla prima stazione di servizio che avrei incontrato, e non sapevo quanto tempo sarebbe trascorso. Già faceva buio e la cosa mi innervosiva ancora di più.
Stavo cominciando ad accusare i sintomi del viaggiatore solitario, sbattuto, stranito, indolenzito, quando intravidi l’insegna. Il cartello dall’altra parte della strada, non illuminato ma che si riusciva ancora a leggere con la luce violacea del crepuscolo, recitava “Bar e Tavola Calda”, la freccia indicava inequivocabilmente una modesta costruzione in tufo e legno.
Avrei dovuto tagliare la strada rettilinea, con la doppia linea continua al centro, e fare una specie di inversione di marcia. La qual cosa mi seccava non poco, a essere sinceri, non tanto per la manovra vietata, da ritiro della patente; piuttosto perché era come girarsi, come tornare indietro. 
La prospettiva di un bagno fece cadere ogni mio ostacolo mentale.
Mi accertai che non sopraggiungessero automobili e attraversai la corsia, tagliai la strada e mi immisi nel parcheggio in breccia e polvere che si estendeva davanti al locale.
Quando spensi il motore mi sentii sollevata.
C’erano altre due auto parcheggiate, una delle quali talmente malmessa che probabilmente era in sosta a tempo indeterminato.
Recuperai la borsetta e smontai. La luce che proveniva dall’ingresso era benaugurante.
Entrai nel locale: quattro tavoli in legno, un frigo dei gelati, un espositore con qualche pizzetta stantia, e puntai dritto al bancone. Non c’era nessuno, ma uscì subito una signora dal retro. Dal grembiule col quale si asciugava le mani e dall’espressione interrogante, capii che si trattava della proprietaria. 
Le chiesi del bagno e lei me lo indicò con gentilezza, nonostante il mio tono dovesse suonare un po’ sbrigativo.
Imboccai il corridoio stretto e lungo, e sbucai nel bagno. Quando accesi la luce mi sorpresi per come era tenuto bene, considerato che era quello di una tavola calda persa nel nulla, che con tutta probabilità serviva piatti pronti a camionisti di passaggio e poco altro.
Feci quello che dovevo fare e uscii velocemente.
Tornai al bancone e chiesi un caffè, non ne avevo voglia, ma era il mio modo di ricambiare il favore per l’uso del bagno.
Cercai anche qualcos’altro che mi facesse gola, ma mi sembrò tutto troppo triste e rinsecchito e desueto, come il dosatore dello zucchero in vetro col beccuccio in acciaio.
“È diretta al mare?” chiese la signora mentre collocava sottotazzina e cucchiaino di fronte a me.
Non mi meravigliò la domanda, ma rimasi bloccata. In tutta la giornata avevo pronunciato poche frasi: qualche accondiscendenza verso Guglielmo, qualche richiesta sminuzzata al cameriere dell’hotel. Era stata una giornata di poche parole, insomma.
“Non proprio” risposi con difficoltà, mentre la signora mi fissava, aspettando che il beccuccio della macchina del caffè iniziasse a sgocciolare liquido nero.
“Forse sono stata indiscreta” si scusò.
“No, non si preoccupi. Non è lei. È stata una giornata”, cercai la parola giusta nel mio dizionario mentale, “intensa”.
La tazzina era colma a metà e lei me la porse. La schiuma marrone e il profumo carico erano invitanti. Aggiunsi qualche granello di zucchero e girai. Il gusto era anche meglio dell’aspetto.
Mi complimentai, le chiesi quanto le dovevo, mi disse ottanta centesimi, cercai nel portaspiccioli una moneta da un euro, le dissi di tenere il resto. Lei ringraziò con educazione.
Uscii e mi diressi alla macchina. Era buio, ormai, sebbene le sagome delle montagne conservavano ancora il bagliore del giorno ormai andato. Questo non mi piaceva. Considerai la possibilità di fare una tirata fino a casa. Mi allettava quell’idea.
Misi in moto, accesi i fari e uscii dal parcheggio, ma inchiodai subito dopo, al momento di immettermi in strada.
Avrei dovuto tagliare la carreggiata, andare verso sinistra, ma non potevo. Un guardrail me lo impediva. Un alto, luccicante, metallico guardrail separava le due corsie di marcia.
Alzai i fari e lo illuminai. Prima non c’era. Sono sicura che prima non c’era. Prima ho svoltato e non c’era.
Non era possibile.
Cercai di recuperare lucidità. Osservai  le barre di metallo e dedussi che doveva esserci un’interruzione, ad un certo punto, quella attraverso la quale ero passata facendo inversione.
Esaminai il guardrail in una direzione e nell’altra e non vidi interruzioni. Cercai di aguzzare la vista, ma niente.
Misi in folle, tirai il freno a mano e smontai dall’auto. Attraversai la strada e lo ispezionai da vicino, con i fari a farmi da occhio di bue. Era nuovo, lucido, consistente; se non fosse folle, avrei dedotto che l’avessero montato durante la mia sosta, il tempo di una pisciatina e un caffè.
Guardai da un lato e dall’altro: era buio e il guardrail sfumava nelle tenebre, ma non scorsi interruzioni. Per fare inversione di marcia sarei dovuta tornare indietro chissà di quanto. Quella situazione assurda mi mandò su tutte le furie.
Non era possibile.
Lasciando l’auto sul ciglio della strada, col motore acceso e lo sportello aperto, guizzai a passo rapido nel bar.
La signora era ancora dietro il bancone. Vedendomi rientrare mi sorrise e mi chiese se avessi dimenticato qualcosa.
“C’è il guardrail!” ringhiai, indicandolo oltre il vetro della porta d’ingresso.
Lei mi guardò stralunata. Parve cercare una risposta nella sua testolina, ma riuscì solo a balbettare un “Prego?”.
“C’è il guardrail!” ripetei, con meno foga questa volta.
Lei recuperò un po’ di coraggio e mi rispose con calma convinta. 
“Sì, signora, c’è il guardrail”, e mi resi conto che stava assecondando il pazzo. E il pazzo, anzi la pazza, ero io.
“Prima non c’era e adesso c’è”, farfugliai, “prima ho svoltato per entrare qui e adesso non posso più svoltare per tornarmene a casa”, ma le mie parole stavano perdendo convinzione man mano che mi uscivano dalla bocca.
La barista cercò di capire, stringendo gli occhietti nello sforzo.
“Lei arrivava dal mare?” chiese finalmente. 
Annuii.
“E come ha fatto a trovarsi con la macchina da questo lato? Come ha fatto a superare il guardrail?”. Mi fissava stupida, adesso. “Non ci sono inversioni di marcia per decine di chilometri, da un lato e dall’altro.”
Deglutii.
“Vuol dire che per fare inversione devo tornare indietro?” ripetei, per essere sicura di quello che avevo capito.
La signora annuii. “E non di poco” aggiunse con schiettezza. Mi sentii crollare il pavimento sotto i piedi. 
No, non avevo intenzione di tornare indietro. Era già stato un sacrificio arrivare fino a qua.
Con gli occhi acquosi di lacrime uscii dal locale. Con passo deciso andai dritta alla mia macchina, che era ancora lì ad attendermi, col motore acceso e lo sportello aperto.
Montai e ragionai. Non era passata nessuna auto. Erano decine di minuti, che non passavano auto. Forse avevo già percorso tutto il tratto, un bel tratto, in contromano e non me ne ero resa conto. E mi era andata bene.
Non volevo restare arenata in quel posto sperduto nel nulla e non volevo tornare indietro. Avevo una sola alternativa, percorrere la strada contromano. Volevo tornare a casa, dovevo tornare a casa, e con un po’ di coraggio e un po’ di fortuna ci sarei riuscita.
Innescai la marcia e sgommai contromano.

Flavio Ignelzi (testo e immagine)


Flavio Ignelzi è nato e cresciuto a Benevento, ma ora vive a Caserta. Ha scritto di musica per Salad Days Magazine. Suoi racconti sono apparsi su Verde Rivista, Cadillac, L’Inquieto, Lahar Magazine, Alieni Metropolitani. Altri stanno per apparire in CrapulaClub, ne Gli Squadernauti e nella raccolta "Una cosa che comincia per L" (Satisfiction/Bookmark Literary Agency). Ha curato le tre antologie Oschi Loschi, raccolte di narrativa sannita contemporanea.

Flavio Ignelzi