Dodici anni fa

fotografia di Alberto Conti

fotografia di Alberto Conti

Adesso abitano appena fuori città, in una frazione in collina sopra Firenze. La casa è grande, una villetta ottocentesca su due piani. C’è un garage, un giardino, una piscina rivestita di mattonelle bianche e azzurre con l'impianto di depurazione. Possiedono due auto, un cane, molte scarpe ciascuno. Bianca lavora in centro, nel negozio dei suoi genitori, Matteo ha aperto con due soci uno studio di architettura in Via degli Alfani. Spesso pranzano insieme, loro due soltanto, nei locali frequentati da fiorentini. Quando escono passano davanti alle vetrine dei negozi alla moda senza guardarle, ogni tanto si cercano con le mani e si sorridono.
Non mi avvicino mai troppo al bordo, anche se mi piace stare vicino al senso della caduta. In estate spesso tiro su il risvolto dei pantaloni e cammino a piedi scalzi, per sentire l'erba umida e fresca. Tengo le scarpe con la mano destra, infilandoci dentro l’indice e il medio, le faccio penzolare mentre passeggio. Vengo spesso su questo spuntone di erba e roccia, sempre di mattina presto. Oltre il bordo, un fosso scosceso e ripido rovina verso la città. A volte mi fermo in un punto da cui posso sovrastare quello che c’è sotto e lascio che ritorni quel pomeriggio sporco e polveroso di dodici anni fa.
Ogni sabato escono a cena con amici, in ristoranti di buon gusto. Ordinano assaggi di antipasti ricercati e poi carne cruda. Matteo, pesce, quasi sempre sogliola, Bianca. Bevono vino da bicchieri a calice molto grandi, raramente prendono un dolce, soltanto lui ordina il caffè, che beve amaro. Lei inghiotte il cibo triturandolo appena, tenendo le mandibole quasi immobili. Sorride a tutti, parla con calma e con le mani ogni tanto sottolinea le frasi degli altri. Porta i capelli legati, un filo di perle al collo. Lui si accosta per primo al tavolo e si siede sempre nel punto meno illuminato. Quando sa di essere osservato, muove la testa di lato con uno scatto brusco e fa cadere i capelli sulla guancia sinistra. In parte ha coperto il segno del taglio su quel lato del viso lasciando crescere la barba. Quando fa così lei alza sempre un po’ la voce, per attirare l’attenzione su di sé.
Stamani il sole è già forte e alto, sono fermo sul bordo polveroso del precipizio, sotto di me c’è un vuoto azzurro, il cielo steso sotto il dirupo. Sono qui da più tempo del solito.
Li ho visti insieme, in quel pomeriggio aspro. Non ho pensato niente di preciso, ho sentito la pancia svuotarsi e piegarsi in dentro. Lui stava ridendo, con una smorfia gonfia. Si è toccato i capelli per sistemarli, portandoli indietro. Stavo scendendo dal motorino e quasi cadevo, mi sono appoggiato al muro con la spalla. Lei si è fermata quando mi ha visto, sembrava una centometrista appena dopo il traguardo. Mi guardava come se stesse controllando il tempo della sua corsa. Non smetteva di fissarmi, col respiro affannato che le alzava il petto. Non avrebbe cercato altri traguardi, quello appena fatto sarebbe rimasto il suo tempo migliore.
Ho provato vergogna e un insopportabile senso di ridicolo. Qualche giorno prima mi aveva detto qualcosa a proposito di ricominciare da zero, ognuno per proprio conto, da allora non rispondeva più al telefono.
Erano usciti insieme da quella trattoria che a lei piaceva tanto, dove ero andato a cercarla, dove speravo di trovarla. Stavano a braccetto, lei poggiava anche l'altra mano sul braccio piegato di lui, dal gomito le pendeva una borsa di cuoio martellato e un sacchetto di carta rosa molto elegante. Era chiuso con un nastro rosso, come si fa con i regali importanti.
Sbagliavo quasi sempre i rigori, nel campetto dietro la chiesa. Nonostante questo, gli altri me li facevano tirare e io non mi rifiutavo mai. Calciavo il pallone con poca forza e li sbagliavo, tutti sapevano che li avrei sbagliati. Provavo vergogna e un insopportabile senso di ridicolo, ma non mi sono mai rifiutato di tirare un rigore, mai, neppure una volta, che io ricordi.
Così è stato anche quel pomeriggio. La voce mi si è chiusa in un urlo che non è uscito, ho stretto qualcosa di pesante nella mano destra e correndo l'ho colpito. Ho sentito il rumore di un corpo vivo che si spacca e si squarcia. Lei ha urlato e ha aperto così tanto gli occhi. Ho lasciato cadere a terra la catena che usavo per chiudere il motorino, il mio braccio destro era completamente macchiato e sembrava intorpidito. C’era odore di un liquido caldo e dolciastro. Il suo sacchetto di carta rosa era rimasto pulito, sembrava ancora un regalo, ma meno importante adesso.
Non gli ho mai chiesto scusa, neppure a lei. Poi è successo quello che succede dopo in questi casi. Non mi hanno più rivisto, non mi sono fatto vedere mai più.

Sauro Venturini Degli Esposti


Sauro Venturini Degli Esposti è nato nel 1964 a Prato, lì è cresciuto, vive e lavora come avvocato. Le sue giornate trascorrono tra affetti in evoluzione, lavoro, passioni, pedalate e molte parole. Alcune lette, altre scritte, a volte per sé, a volte per gli altri. Collabora con la rivista pratese A Few Words.