Una bambina

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Marta stava affacciata alla finestra a versare del vino in un bicchiere spesso e a tenere d’occhio Betta mentre giocava. Un po’ beveva, un po’ pelava i fagiolini. 

Betta era seduta fuori con le tazzine di plastica e la teiera finta. Apparecchiava su un carrellino con le ruote, non lo spostava mai perché si inceppava e le tazzine riempite d’acqua si rovesciavano subito. 

– Marta, vuoi un tè?

– No.

– Perché?

– Perché c’ho il vino.

– Mi sono sbagliata, sai? Non è tè, è vino.

Marta non si faceva convincere, Betta allora guardava la terra screpolata del cortile. Suolo giallo e secco, erba rada. La terra aveva solchi, era spaccata. 

Attraverso quei solchi Betta vide qualcosa.

Ne notò prima solo uno: rosa, tenero, a pancia in su. Quattro zampine corte, il corpo tozzo. Spostò gli occhi e ne vide un altro. Poi un altro, un altro, e un altro ancora. Che succede? Il cortile ne era pieno zeppo. Tutto il cortile, sotto la terra spaccata, era abitato da piccoli feti tranquilli che si intravedevano dalle crepe del suolo. Erano lì sotto. Da quanto? Erano tanti. 

– Hai visto?

Betta si rivolse a Marta, che taceva e continuava a bere.

– E se sono topi?

Stavano crescendo i topi nel cortile di casa? Sarebbero usciti topi a decine, veloci, da un terreno prima così banale?

Marta la guardava in silenzio, occhi celesti e opachi. Spostò la bacinella dove i fagiolini si ammucchiavano verdissimi e portò lo sguardo oltre Betta, verso gli alberi di pero, oltre la panchina e l’altalena, fino ai cespugli di tuia che segnavano il confine con il giardino della signora Pichi. Si pulì le mani sul grembiule. Si alzò, prese il suo bicchiere e andò al lavandino. 

– Non abbiamo piantato topi, quest’estate, Betta. 

Non la guardava e sciacquava il bicchiere. 

– No?

– No, bella… Pensaci. 

Cosa abbiamo fatto in questi mesi? Cosa ho fatto, Marta? 

– Abbiamo piantato lontre.

La mamma di Betta era incinta. Stava sempre a letto. Betta le chiedeva spesso del bimbo, chi sarà, che nome avrà. La mamma diceva è maschio. No, faceva Betta, è femmina, è Marianna – come la perla di Labuan, la fidanzata di Sandokan. 

Betta raccontava cose dell’asilo. Della maestra Alessandra. Della gatta Mina, incinta pure lei. Dei muratori che lavoravano fuori, sulle impalcature, tutti i giorni, in giardino. Perché dipingevano la casa di marrone? – A me non mi piace.

– Non è che dobbiamo chiederti il permesso per tutto, sai? E poi, sciagurata, ti ho vista ieri in perlustrazione sui ponteggi, quando i muratori se n’erano andati. E se cadi? Guarda che sei piccola! 

Mentre la mamma sistemava il fiocco alle scarpette di Serenella, la bambola preferita di Betta, attraverso le tende chiare Betta teneva invece d’occhio i movimenti dei muratori, registrava il loro vociare, il rumore degli attrezzi, dei secchi, il passo di quelle loro scarpe. 

All’asilo di Corinaldo Betta andava con Marta, che le prendeva la mano e si avviava a passi sbrigativi. Sul marciapiede gli aghi di pino scricchiolavano sotto le scarpe. Marta ogni tanto si fermava a raccogliere i pinoli. A volte si sbagliava, non era un pinolo, ma un pezzo di pigna, e allora lo gettava per terra, sbuffava. 

Betta aprì gli occhi. C’era Marta. C’era anche suo babbo, più arretrato, in piedi. La camicia celeste aveva aloni sotto le ascelle, i capelli erano un po’ sudati. 

– Hai voglia di andare da Marta qualche giorno?, chiese il babbo.

Marta si sedette di traverso sul letto. Si scostò il vestito da dosso, all’altezza del seno, per il caldo. Poi appoggiò le mani sulle gambe, una sull’altra, precise. 

– Te oggi vieni con me.

– Posso stare da te?

– Sì, hai sentito, vestiti.

Quando Betta tornò dal bagno, Marta aveva Serenella sotto braccio. Betta allungò le braccia verso la bambola, Marta si scostò, le gambe di Serenella penzolarono:

– Prima ti vesti.

Il babbo prese un vestito dall’armadio.

– Vieni, topina.

– No, babbo, non quello. Quello lì. 

Lui guardò Marta.

– Va bene, va bene. Muoviti, Giorgio.

Da Marta Betta vide i conigli con i piccoli. Andò in giro per strade quasi vuote, a piedi, con i vecchi e le vecchie, che a Betta piacevano molto. Le vecchie più belle erano quelle che avevano ancora i capelli lunghi, li portavano raccolti, e quando Betta chiedeva di scioglierli, chiedeva se poteva toccarli, loro rispondevano di sì. I vecchi stavano seduti su sedie di plastica, con i gelati in coppetta, e quando era più fresco giocavano a carte. Betta mangiò i pomodori appena colti, senza lavarli, caldi. Disse a Serenella che ora vivevano lì, da Marta. E le tolse le scarpette, perché era estate. 

– Quale è stato il giorno più bello della tua vita, Marta?

– Nessuno.

Buio e silenzio nella camera da letto. Marta pregava in sottoveste, con la luce del comodino accesa. Prendeva l’immagine di santa Maria Goretti da sotto il cuscino, e la baciava. 

– Marta a che ora ti alzi la mattina?

– Presto.

– A che ora?

– Per te è presto.

– Mi svegli quando ti alzi?

– Vediamo.

Marta svegliò Betta alle sei. La svegliò e la lasciò per conto suo. Betta andò in bagno, poi cominciò ad aggirarsi per casa. In cucina, Marta aveva scaldato il latte in un pentolino, tirato su le serrande e aperto la porta con la zanzariera. Betta si mise a sedere davanti a una tazza e a un pacchetto di biscotti. Nel latte caldo c’era l’insidia della pellicola di panna già formata, disgustosa.

Dall’orto dietro casa entravano i rumori delle cicale e degli uccelli. E mentre gli animali spadronneggiavano nel loro codice di versi, Betta restava zitta a guardare Marta che spazzava le scale, Marta che prendeva qualcosa dal frigo, Marta che tirava giù da uno scaffale il vaso di vetro pesante con la farina. 

– Ti dobbiamo dire una cosa.

Betta era in auto col babbo, che era venuto a prenderla a casa di Marta. Marta stava seduta davanti, lei dietro con Serenella.

– È nata la sorellina, ma la mamma è stata tanto male.

Betta smise di guardare fuori dal finestrino e scivolò verso il centro del sedile.

– Adesso sta meglio, ma non si alza perché le hanno fatto un taglio nella pancia. 

– Ah…

– È a casa, però si deve riposare, deve stare a letto. Non vuoi sapere della sorellina?

Betta pensò a Marianna. 

– Si chiama Giulia. Ti piace?

– Non Marianna?

L’auto accostò davanti a casa.

– Elisabetta e Giulia, senti che bello, sono i nomi di due principesse!

– Tu lo sapevi, Marta, che era nata la sorellina?, chiese Betta.

– No…

– Lo sapevi! 

L’odore di Giulia era disgustoso come quello del latte bruciato con la pellicola sopra. Teneva gli occhi chiusi e si muoveva in continuazione. Questo sorprese Betta. Si muoveva come quei vermi che spuntavano in giardino quando ha piovuto. I grandi non si muovono così, neanche i bambini. Non aveva visto mai niente di così fluido e indifferente. Era sudaticcia. Vestiva di azzurro, perché la mamma era sicura che sarebbe nato un maschio. Invece era nata una femmina, come voleva Betta, ma diversa da come Betta sperava, diversa già nel nome. Non sarebbe salita sui ponteggi dei muratori insieme a lei, avrebbe avuto paura. E non avrebbe raccolto i vermi dopo la pioggia per fare uno scherzo a Marta, avrebbe avuto schifo.

La mamma non riusciva ad allattare Giulia, le dava il latte nel biberon. Tutta la faccenda del cibo era molto complicata, Betta non capiva bene, anzi più che altro ne era infastidita. Possibile che bisognasse sempre star lì a pesarla, possibile che se una volta Giulia non mangiava doveva succedere chissà che? 

– Betta, non mi racconti più niente?, le chiedeva la mamma ogni tanto. Lei raccontava, ma non riusciva mai a finire una storia, la mamma si distraeva subito perché Giulia piagnucolava, o smetteva di succhiare, o dava l’impressione di non respirare più; oppure la interrompeva perché entrava il babbo, e allora parlavano di Giulia, o di come stava la mamma, o del battesimo, o dei muratori che facevano rumore e creavano pericoli. 

– Adesso poi che stanno lavorando proprio sul terrazzo della nostra camera da letto… Hanno pure tirato giù la ringhiera, è pericolosissimo, Betta ci va sempre. E se cade? Si porta pure la bambola, così non ha neanche appigli se inciampa.

– Topina, prometti che non ci vai più?, chiedeva suo babbo.

– Ma che, secondo te ubbidisce? Speriamo che ricominci presto l’asilo, così magari gioca con i bambini della sua età e la smette di seguire i muratori sui tetti o stare sempre dietro a Marta.

– Tra qualche anno giocherà con Giulia.

La mamma allora abbassava la voce e sussurrava qualcosa, con l’aria di saperla lunga. 

Il babbo era via e Betta poteva dormire nel lettone con la mamma. Giulia dormiva nella culla. Era agosto, era caldo, le finestre stavano aperte anche la notte. 

– Serenella deve proprio dormire con noi?, chiese la mamma ridendo, mentre si aggiustava su un fianco, verso la bambola e verso Betta. Serenella stava tra i due cuscini.

– Tu hai Giulia, io ho Serenella. 

– Io ho anche te, s’è per questo. Ti sei lavata i denti?

– Sì.

– Fa sentire l’alitino? Brava la mia bimba. Dai un’occhiata tu a Giulia mentre vado in bagno?

Appena i passi della mamma non si sentirono più, Betta scattò in piedi sul letto e andò a guardare la culla. Vista dall’alto, Giulia sembrava ancora più piccola. Rosa, tenera, con le braccia e le gambe corte e grasse assomigliava a uno di quei feti che stavano crescendo all’insaputa di tutti sotto la terra del giardino. Topi!, pensò Betta in quel momento. Ora, osservando Giulia, ne era sicura. Sono topi, le lontre hanno il pelo, i topi no. Marta si è sbagliata. E poi forse Marta non li ha neanche visti, ha fatto finta. Li vedo solo io, pensò Betta. Si sedette sul letto, con le gambe che penzolavano fuori, e con grande cura prese Giulia fuori dalla culla. Giulia non si mise a piangere, fece piuttosto un verso piccolo, animale, il lamento di un agnellino. Tenendola ben stretta, scese dal letto con un saltino leggero. Giulia cominciò a piangere, ma il sonno sembrava più forte del pianto, teneva gli occhi chiusi, non urlava come quando aveva fame. Era un pianto nervoso, capriccioso. Betta avrebbe voluto stritolarla, mordere quella carne inutile, prenderla a calci. Buttala dalla finestra. 

Sul terrazzo l’aria era mite e scura. C’era l’odore dei materiali che usavano i muratori, odori che un po’ le piacevano, un po’ le stringevano la gola, come capita con la vernice fresca. Dal giardino saliva l’umido lento della vegetazione. I gatti in amore lottavano e si straziavano, nei loro gemiti c’era la forza delle tigri di Sandokan, mentre nei versi di Giulia solo debolezza e stupidità. Si guardò le spalle, la mamma non era tornata. Ci metteva sempre molto, chissà cosa faceva. Avanzò fino a dove c’era la ringhiera, che adesso era stata tolta. Stette lì a respirare finché non le fecero male le braccia. Giulia seguitava a dimenarsi con il suo movimento continuo e misterioso.

Tornò in casa, appoggiò Giulia sul letto. Non riusciva a ripetere tutta l’operazione al contrario e a rimetterla nella culla, così la lasciò sul letto e si mise in piedi di fianco a lei. Tanto per fare qualcosa prese ad accarezzarle il braccio, con un dito solo, la faccia seria, piano.

Donata Cucchi (testo e immagine)


Donata Cucchi è laureata in filosofia, lavora per la casa editrice Zanichelli dal 2005 e scrive su «La ricerca». Ha lavorato in precedenza per la Libri Scheiwiller e ha collaborato con diverse case editrici, tra cui Mondadori, Utet, il Mulino.  Da anni si dedica alla fotografia e alla pratica teatrale. Vive a Bologna.

Donata Cucchi