Tre nuove ricette musicali di Enrico Bianda

Millefoglie di baccalà e carciofi Sheikeriano

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E’ uno di quei cantautori che probabilmente oggi, e pure ieri, verrebbero relegati alla categoria “si simpatico, bravino, magari melenso, no?”. Rischio grosso che si corre se si passa troppo in fretta sulle sue canzoni. Poi qui da noi praticamente nessuno se l’è filato di striscio mai. Eppure ad un certo punto, nel 2001 credo, prende e si affida ad un poeta, tale Steven Sater, e sforna un disco intitolato Phantom Moon, e glielo pubblica nientemeno che la Nonesuch. Voglio dire la stessa casa discografica del Kronos Quartet oppure di Brad Mehldau. Questo Phantom Moon è un disco da ascoltare quando si è totalmente - attenzione, ho detto totalmente - malinconici. Aggiungo che lo stato d’animo dovrebbe essere almeno assimilabile ad un presbronza consapevole, con aggravante di una notte di sesso con una/un donna/uomo che poi lascerete afflitti di disperazione perché avevano pensato di aver fatto l’incontro della vita. No. Non quella sera perché nulla vi potrà mai più consolare, e diverrete sciupafemmine/maschi per disperazione, dimagrirete fino a perdere una decina di chili solo per profonda disperazione sentimentale. Ma non scriverete mai una canzone come “La costruzione di un amore” di Fossati. E nemmeno poesie. Niente. Dimagrirete ma almeno avrete la magra consolazione di una vita sentimentale arida ma movimentata.

Allora, torniamo a Phantom Moon. Il grado di melanconia massima lo si raggiunge con la canzone Longing Town, quando fa:

“Why is the ghost who listens

So cold and so alone

Wind, tell her lightly

All that we might be

While I sit, nightly

Watching the shadows drifting down

Twilight descends so blue, so brown

And longing begins in this longing town”

Ecco, Dunkan Sheik è amaro e dolce allo stesso tempo. Forse un filo troppo americano, ma che vuol dire poi, sono americani pure Joe Henry e Randy Newman per dire. E quindi? Che fai non li ascolti? Se dovessi trovare un piatto Sheikeriano, mi butterei su questo Tortino di carciofi e baccalà mantecato.

Per due persone (te, e quella che non c’è più)

4 carciofi primaverili (i violetti di San Vincenzo vanno benissimo), puliteli e fateli a fettine, per spadellarli con aglio e prezzemolo, belli unti e scottati ancora duretti. Devono restare amarognoli.

Nel frattempo con i vostri 400 grammi di baccalà dissalato iniziate a cuocere insieme due patate sbucciate, un paio di bicchieri di latte, una foglia di alloro e qualche grano di pepe nero e mezzo bicchiere d’acqua. E il baccalà, certo. Una volta pronto frullate patate e baccalà fino a ricavarne una bella mousse. Disponete sul piatto i carciofi a tortino e sopra una bella parte di baccalà mantecato. Beveteci del vino rosso, magari una Bonarda pavese fresca. Parecchia. Tanto siete tristi.


Fegatini Noise

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White room. Gira e rigira non mi esce dalla testa questa immagine. Camera bianca, pulita, rarefatta, con un bassissimo contenuto di microparticelle di polvere in sospensione. In una camera di questo genere come potrebbe suonare la musica: un’eco interminabile accompagnerebbe le sonorità prodotte da un misterioso musicista vestito di rosso?

E niente: le immagini si accavallano, un po’ disturbate, un po’ incubo ad occhi aperti, colori spaiati si sommano e danno vita ad un dispositivo di sensazioni un po’ assemblate in un dormiveglia cognitivo che mi preoccupa.

Ma questa camera bianca come riecheggerebbe di suoni smodati? E sopratutto perché un chitarrista (si, lo vedo come un chitarrista) dovrebbe mettersi a suonare in una camera bianca anonima e pura? Per il puro piacere di sentire riverberare i suoni della sua Fender Jaguar. Credo. E percussioni arboree, sassofoni nord europei in fibrillazione, bassi post punk, e un canto in contrappunto dolce, fiabesco, su tamburi metal: tutto insieme verso il noise, con l’elettricità delle chitarre in primo piano che rimbalza impazzito sulle pareti bianche e investe l’ascoltatore impietrito.

Kiko Dinucci al suo primo lavoro in solo, che si intitola Cortes Curtos (2017), per me si è messo in una luminosissima camera bianca e ha fatto deflagrare la sua fantasia innestando il punk e il noise nella samba paulista. Il risultato è magnifico e allucinogeno, come guardare una mezza testa di coniglio soffriggere in una padella con cipollotto affettato fine nel burro e nell’olio.

E si, se volete godere, agitarvi di piacere, prima di mettervi a tavola e cenare con amici, preparate uno spuntino a base di fegatini di coniglio (con cuore e polmoni).

Soffritto di cipollotto bianco in burro e olio. Appoggiare nella padella la mezza testa di coniglio sul lato piatto. Lasciare che brevemente insaporisca il soffritto e aggiungere i fegatini e il resto delle interiora.

Bagnare con cognac e dare la fiamma. Salare e pepare abbondantemente aggiungendo salvia fresca. Lasciare cuocere a fiamma viva facendo attenzione a mischiare i succhi della testa con i fegatini. Alla fine quando tutto è ben cotto bagnare appena con un filo di aceto balsamico. Servire bollente con un crostino arrostito e un magnifico bicchiere di vino rosso un po’ fresco. Quello che vi pare.


Soul Fleischkäse

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E' un po’ un’icona musicale della seduzione. Ma resta - nonostante i molti abusi - un gran pezzo di musica soul anni 70. Tra i migliori. Del campione della musica soul di quegli anni, Marvin Gaye. Il migliore. Lets get it on e What’s goin’ on sono assoluti capolavori della musica. Insieme a Donny Hathaway. Che canta The Ghetto. Insieme mettono in fila tutti. Un poco più a sinistra c’è Curtis Mayfield. Un Pantheon di geni del soul. Tamburello, linee di basso inarrivabili, batteria semplice con groove pazzeschi, clap hands inesausti, Fender Rhodes da lacrime, bridges mozzafiato.

E in tutto questo, beh, Lets get it on, è perfetta. Quella sintesi di erotismo, aspettativa, melanconia, che puoi solo immaginare di smaltire da Sylvia’s Restaurant, the “The Queen of Soul Food”, ad Harlem. Pollo fritto, patate fritte, salse rosse dolciastre, birra, profumi di cucina che innervano le fibre dei tuoi vestiti per sempre, e sarà come stare dentro un Ghetto Blaster per tutta la vita.

Mettetelo sto disco su, fatelo partire e mettetevi in cucina ancheggiando. Con un tocco di Svizzera tedesca, che per me, cresciuto a Stäfa, vuol dire entrare da un macellaio e sbavare davanti al bancone pieno di tutti i tipi di Fleischkäse.

Un tocco di esotismo nordeuropeo dunque per questa ricetta musicale.

Prendete innanzitutto qualche vecchia patata e grattugiatela. Mettete del burro in una padella antiaderente e fateci cuocere a fuoco lento il tortino di patate con solo un po di sale. Deve diventare un tortino dorato alto un centimetro.

Poi prendete in un’altra padella antiaderente una bella fetta di Fleischkäse, una via di mezzo tra un polpettone ed un würstel gigante, e mettetelo a friggere in un filo d’olio: deve dorare anche lui. Togliete e nella stessa padella fateci cuocere un paio di uova al tegamino. Finito. Unite tutto ed avete il piatto meno raffinato della terra forse, ma una goduria popolare ai confini dell’erotismo, se chiudete gli occhi, e vi immaginate al Sylvia’s Restaurant.


Enrico Bianda fotografato da Carlo Zei

Enrico Bianda fotografato da Carlo Zei

Enrico Bianda, nato a Zurigo nel 1971, ha insegnato all'Università a Firenze e fa da sempre il giornalista. Attualmente conduce un programma di attualità per la Radio Svizzera. Fotografa, mangia e ogni tanto scrive di giornalismo.

Enrico Bianda