Ferruccio Mazzanti - Un estratto da "Timidi messaggi per ragazze cifrate"

Il transfert, scrive Sigmund Freud, è amore.

E quando Grot, protagonista di Timidi messaggi per ragazze cifrate, rompe l’isolamento in cui si è

recluso e lancia per la rete messaggi cifrati - è l’amore: sono donne, immagini di donne che gli

vengono in mente.

Tuttavia non tutte le immagini sono uguali, né tutti gli amori, né tutte le donne.

Segnatevi tre nomi: Brigitte Helm - la curva algebrica di 5° grado delle sue spalle - è uno di questi.

Alfredo Zucchi


Ferruccio Mazzanti ritratto da Carlo Zei

Eppure di fronte a questa Maria Freder, Babbage dei miei sogni, come fare a non ricordare la mia

prima e unica grande, titanica e mostruosa delusione d’amore? 2.189 giorni fa è stata l’ultima volta

che mia madre mi ha portato al mare. La spiaggia luminosa e la pineta con gli aghi piovosi e le

pigne non rappresentavano per me uno spazio continuo dove divertirmi, a 15 anni, quando ancora

non ero un ritirato sociale e mia madre guardava alla mia timidezza con un sorriso affettuoso, come

a sottolineare tra sé e sé che solo lei avrebbe potuto generare un tale sensibile fagotto di carne, ecco

sì lei pensava allora che nel tempo le mie deformazioni craniche si sarebbero trasformate in

splendidi ornamenti fisici e la mia timidezza sarebbe stata un’arma di seduzione e successo.

Andavamo nella spiaggia libera, ma il più vicino possibile al più costoso tra tutti i bagni. Per quel

che ne so lo stabilimento balneare accanto al quale mi trascinava era un luogo pacifico e

matematizzato. Johann il bagnino nordico dall’accento di ghiaccio manteneva gli ombrelloni e le

sdraio ordinati secondo file numericamente predisposte, ché poi in definitiva doveva essere un po’

compulsivo, Johann il bagnino, dato il risultato che otteneva: un insieme di Cantor capace di

sopravvivere all’agitazione dei bambini e dei ragazzi, con le loro biglie e i loro palloni e le loro

racchette e le ciabatte lasciate in giro in ogni dove e i ragazzi che inseguono le ragazze, le afferrano,

le gettano in acqua, le sdraio spostate di continuo, i best sellers gettati un po’ ovunque quando non

più utili per dilazionare la noia, le creme solari spremute, le sigarette fumate, gli asciugamani

bagnati, la gente che ride, che si rilassa, che prende il sole, questa luce quasi bianca dai contrasti

netti, che appiattisce la tridimensionalità e, coadiuvata dal salmastro, secca le pelli già abbronzate

delle madri e si espande come una colpa smascherando gli angoli più ottusi del nostro corpo, là in

costume blu, sotto l’ombra poco protettiva dell’ombrellone, un corpo inceppato e sudato da oliare:

che paura questo orrore del corpo, ma Johann il bagnino indefesso manteneva un ordine che poteva

essere trasformato in algoritmi, sempre col sorriso, al centro delle attenzioni, come qualsiasi

bagnino che si rispetti.

E invece, appena due metri più in là del lungo cordone arancione che divideva inequivocabilmente

la spiaggia privata da quella pubblica, là dove mia madre ogni mattina piantava con soddisfazione il

piccolo, lacero ombrellone rosa, adagiando in un secondo momento l’asciugamano anch’esso rosa,

ecco là l’imperiosa e obnubilante entropia, la discontinuità di donne obese e figli tatuati e ombre

incapaci di rendere l’aria respirabile all’una di pomeriggio, il caldo ancor più caldo sotto le ascelle,

tutto questo unto che cola lentamente come dentro una rosticceria, e i bambini ustionati che scavano

buche, l’onda che riporta gradualmente la sabbia rendendo vani gli sforzi e i palloni bucati e le

ragazze che tossiscono e le ciabatte che non si trovano e gli aghi di pino in verticale nella sabbia e

io lì, avvolto nel mio asciugamano come un malato, nella minuscola proiezione gnomonica

dell’ombrellone, senza avere accanto un Johann il bagnino capace di riposizionare le sdraio e gli

ombrelloni al loro posto naturale.

Me ne rimanevo nel mio piccolo angolo di ombra, mia madre come una lucertola a riscaldarsi le

ossa, con il mio saggio di crittografia ben ancorato tra le mani e le nostre cose gettate un po’ a caso

intorno a noi, facendo attenzione a non subire la fastidiosa ossessione dei granelli di sabbia

appiccicati tra i frenuli delle dita dei piedi, e tra una pagina e l’altra potevo spiare i miei coetanei

pochi metri più in là intenti a costruire castelli, calciare un pallone, lottare dove ancora si tocca,

mentre le mutandine dei costumi delle ragazze lasciavano cadere verso il suolo salate gocce di

mare. Là, nel mio più assoluto disagio, completamente avvolto nell’asciugamano, vidi magnifica e

incolume dalla mostruosità del corpo umano, in tutta la sua volatilità, Brigitte Helm, coi suoi capelli

flavi e quegli occhi cilestrini e quel costume niveo.

La sua sdraio nel bel mezzo dello stabilimento balneare era la L583, incredibilmente azzimata nella

disposizione dell’asciugamano, tutta una sua logica tra quello che appendeva sui raggi metallici

dell’ombrellone e le cose a cui veniva permesso di stare al suolo. La madre educatamente intenta a

risolvere le parole crociate, mentre il padre sbracciava dalla piccola deriva presa a nolo. Più che una

piazzola, come le chiamava Johann il bagnino, sembrava un piccolo giardino pieno di arabeschi

dove Brigitte Helm sostava di quando in quando per riprendere fiato dai giochi o baciare un panino

o santificare la crema protezione 50 benedicendola con la propria pelle.

Brigitte Helm e le sue piccole lentiggini fulve che incorniciavano le fossette agli angoli della bocca,

fossette presenti solo quando sorrideva, ma lei sorrideva sempre, nel suo trovarsi a proprio agio in

quella dimensione intermedia tra l’asciutto e il bagnato, là in riva al mare.

Brigitte Helm e la curva algebrica di 5° grado delle sue spalle.

Brigitte Helm e la sua voce che risuona per tutta la spiaggia mentre corre contro le onde, tuffandosi

di volta in volta sempre più al largo.

Brigitte Helm e l’asciugamano stretto intorno ai fianchi mentre guardinga si cambia per tornare a

casa: quei pochi attimi in cui potevo percepire dal caos della spiaggia libera la sua nudità, là tra gli

ombrelloni perfettamente ordinati da Johann il bagnino, prima che si rivestisse, per una manciata di

secondi ancora, nuda sotto l’asciugamano.

Brigitte Helm e mia madre che mi ripete ogni venti minuti circa: ma perché non vai a farti una

girata, non vai a giocare con gli altri ragazzi, non vai a farti un bagno, non mi lasci un po’ sola, un

po’ qui, da sola, prendi un pedalò, pedala, fai qualcosa.

E io che torno sulle pagine inumidite dal sudore delle mie mani dei saggi di crittografia, avvolto

nell’asciugamano, con quel senso di umiliazione derivante dalla consapevolezza che, nonostante

tutti i miei sogni e tutti i miei buoni propositi, Brigitte Helm sarebbe stata irraggiungibile per uno

come me.

Sennonché un giorno terribilmente luminoso, mentre Brigitte Helm giocava insieme a una sua

amica sul bagnasciuga col racchettone, la bianca pallina del suo divertimento cadde esattamente tra

i miei piedi e lei, Brigitte Helm, giunse correndo sotto la logora protezione del mio ombrellone, le

mutandine del costume che gocciolavano il salmastro sulle cosce, e guardandomi con un sorriso

indimenticabile mi chiese se per caso volessi giocare con lei, col racchettone, là sul bagnasciuga,

che la sua amica era proprio una cagna e che io forse avevo un dritto più deciso.

Ferruccio Mazzanti


Ferruccio Mazzanti ha scritto su numerose riviste letterarie, ha un blog su Stanza251, oltre ad essere cofondatore di In fuga dalla bocciofila e Il mondo o niente.

Ferruccio Mazzanti