Eternità virtuale

 
 

Qui a Hollywood sul Tevere, alcune persone sentono “scrittore” e capiscono “traduttore”. Vuol dire che tu esisti per aiutarli a far produrre le loro sceneggiature nella vera Hollywood. In passato mi infastidiva, ma pagano in contanti, e il traduttore digitale funziona sempre meglio.

Un tizio a una festa noiosa sentì “scrittore” e capì “guida turistica”. Era perlomeno qualcosa di nuovo. “Di che si tratta?” gli chiesi.

“La vecchia Cinecittà viene trasformata in un parco a tema,” rispose.

Lo sapevano tutti. Ci giravano ancora al massimo qualche spot, qualche telenovela, quindi le comparse speranzose continuavano a sciamare all’entrata. Aspiranti registi portavano i loro reel sui telefonini. I paparazzi sono spariti, come gli uomini in palandrane nere e cappelli da cowboy Borsalino che nascondevano i loro sguardi autoritari dietro occhiali da sole più scuri di quelli in vendita al pubblico. Non vi passano più limousine, lascia stare elicotteri.

“Devi solo far finta di aver interpretato il ruolo di Mister Pigg in Fellini Casanova. Ai turisti dirai che tu e Donald Sutherland siete cresciuti insieme in Canada, che giocavate a hockey, mangiavate sciroppo d’acero, stronzate del genere. Li condurrai per i nuovi finti set, che faremo sembrare polverosi e sacri. Toccherà a te convincerli che stanno vedendo la roba genuina e segreta. Così quando vanno via crederanno che forse un po’ di quella magica polvere di stelle gli è rimasta attaccata.”

Non tanto tempo fa gli avrei detto di no. Nemmeno no, grazie. “Potrei provare.”

“Grande. Vieni domani per fare un provino.”

Bisogna fare provini anche per i lavori più umilianti, di questi tempi.

Andai a Cinecittà in Vespa, cosa che non avrei fatto a Los Angeles, dove gli studi cinematografici sono lontani dal mare. 

La coda per i provini si estendeva fino a Cartagine. Si era sparsa la voce che alla nuova CinecittàLandia lanciavano contratti come coriandoli. La gente disoccupata cianciava sui telefonini e gesticolava, a parte una signora alta e snella. I suoi capelli le scendevano per la schiena in una lunga e densa treccia bianca, legati con del raso nero. Sembrava che fosse rimasta congelata nel tempo mentre aspettava di fare il provino per la parte di Ragazza intellettuale in carriera, New York, 1966. Sulla catenina d’oro le pendeva una replica della Bocca della Verità in oro 18k. Leggeva un mastodontico libro. Non mi ero portato niente da leggere, non credevo di dover aspettare. 

Qui nella terra degli spaghetti, chi non ha faccia tosta perde. Quindi feci finta che mia madre mi avesse tenuto il posto mentre raccoglievo i pomodori per la salsa marinara di quella sera. Se qualcuno ci fece caso, non disse niente. Il discorso sui telefoni e il teatro della gestualità continuarono senza interruzioni.

La signora non guardò su dal libro. “Bella mossa,” disse. 

“Grazie,” dissi. “Fai un provino per l’otto volante Rossellini?”

Finì di leggere un lungo paragrafo. “Questo è l’unico modo per entrare. Ogni tanto torno a dare un’occhiata, ma non so perché. Non c’è rimasto niente.”

Non c’era mai stato niente, o comunque non molto.

La città eterna era a pochi minuti di metropolitana verso ovest. Sotto le rotaie stavano sepolti mosaici, statue ed elmi di gladiatore arrugginiti dal sangue. Cinecittà era una versione in miniatura di Hollywood, che fu creato per vendere una versione gloriosa degli Usa agli americani, e poi al resto del mondo. La fila conduceva verso una possibilità di trasformare un fasullo Hollywood in un finto Disneyland.

La coda si mosse. Una giovane coppia fu ammessa oltre il cancello da un uomo in divisa con una vera pistola alla cintola. Seguirono un’altra guardia verso un basso edificio a qualche centinaio di metri. Nessun altro li osservò. La signora andò avanti di qualche passo, e mi accorsi solo allora di averla già vista. 

Trascinava un carrello della spesa in giro per Trastevere come le vecchie del quartiere, che erano rimaste in poche. Quella fetta di centro storico era diventato il campus di qualche college statunitense. Tutti i i giovani attori e registi autoctoni erano emigrati a Los Angeles.

Si era di nuovo persa nel vasto tascabile. La fila si muoveva lenta come l’economia.

Mi offrirono il lavoro per la giostra Casanova. Avrei solo dovuto mettermi in costume diciottesimo secolo e indicare, per esempio, una sedia pieghevole e dire, “Federico si sedeva proprio lì tra riprese.” La paga era decente, ma quando misero sul tavolo il contratto e la biro una voce che mi ricordavo appena di avere disse, “Bisogna che ne parli al mio agente.”

I tipi unti del casting non chiamarono la guardia per portarmi via. Uno di loro fece un gesto per scacciarmi come una mosca che aveva sprecato il loro tempo.

Mentre attraversavo un campo brullo verso l’uscita, rividi la signora dai meravigliosi capelli bianchi. Vagava per il set di una strada dell’antica Roma: un piccolo tempio con colonne di cartapesta e una finta palma storicamente inappropriata. Se aveva fatto un provino, nessuno le aveva intimato di andarsene, dopo. Mi sentivo come una di quelle persone che vedono attori in costume mentre gironzolano per la reggia di Versailles, e poi scoprono che nessuno ci girava nulla, quel giorno.

Nessuna guardia in vista. Mi avvicinai, tossii per non spaventarla. “Verresti a cena con me al Ciak stasera?”

“Volentieri,” disse, e abbassò gli enormi occhiali da sole per svelare uno sguardo di tanti anni fa. Una guardia apparve da dietro una scaffalatura pericolante. Gli andai incontro per farmi indicare il cancello dell’uscita, e lui la lasciò in pace.

Al lido di Ostia il mare sembrava un specchio.

Al ritorno dalla spiaggia mi fermai al Colosseo, smontai dalla Vespa e chiesi a al tizio conciato da centurione se avesse dovuto fare un provino per accalappiarsi quel lavoro. Aveva un forte accento romano, non era stato importato. “Cosa si prova,” gli chiesi, “a impersonare i propri antenati?”

Rispose che le fabbriche erano chiuse, e non era adatto per fare del cinema per soli adulti. Poi mi disse di sparire, se no mi avrebbe dato una mazzata in testa col suo gladio, che era d’acciaio, non legno verniciato d’argento.

Il popolo del vecchio Hollywood sul Tevere cenava al Ciak. Donne intriganti trafficavano con uomini ombrosi che avevano lasciato le loro Ferrari a casaccio sui sampietrini del vicolo. Una discreta cenetta clandestina e poi via, a tutto fuoco, fino al cuore della notte. Attori sconosciuti davano tangenti ai paparazzi per scattarli al Ciak, e recitavano la loro indignazione a essere ripresi in quel momento. La gente comune ci andava per vedere le stelle, e per comparire in sottofondo nelle foto incorniciate per i turisti del futuro. 

Lei entrò mentre guardavo delle ombre bianche e nere sotto vetro. Quando si avvicinò per il primo piano, notai che era lei la bella ragazza tra Federico e Marcello nella foto scattata cinquant’anni prima più o meno nel punto esatto dove ci trovavamo. Anche allora i suoi capelli erano il colore della cenere di sigaretta. Ci fissammo, aspettando che il regista immaginario, o uno dei camerieri, urlasse, ciak!

Si mosse appena, ma l’incantesimo finì. Le presi il cappotto e tirai fuori la sedia.

Fece finta di fumare un grissino. Ormai non si può fumare per davvero, al Ciak. “Preferisco la mia foto con Alberto Moravia e Pipì Pasolini,” disse. “Elio era l’unico che mi riprendeva sempre dal profilo buono.”

“Quella non l’ho mai vista, e vengo qui da anni. Sta nel bagno delle donne?”

“Scemo, è a casa mia. Ma dai un’occhiata allo scatto direttamente sopra la tua testa.”

Un cameriere ci portò dell’acqua gassata e una caraffa del vino bianco della casa. Disse che quella sera c’erano i calamari ripieni. Stavo pescando tra i volti nelle vecchie foto tinte di seppia. Eccolo, Pier Paolo Pasolini, anni prima di aver diretto Salò, accanto a una giovane dai lunghi capelli bianchi in sottofondo per la premiazione di Miss Seno Italiano del 1967.

Miss Seno Italiano nel vecchio scatto c’era sempre. Faceva pedicure e massaggi nella galleria sotto la stazione Termini. Da quando Fellini l’aveva scartata per il ruolo della tabaccaia di Amarcord non si era mai veramente riavuta. 

“Scambiamo questo acido muriatico per una buona bottiglia,” dissi, risiedendomi.

Non ascoltava. “Pipì mi ha commissionato di fare l’arredamento della sua villa a Sabaudia. Se guardi la prima scena di Accattone, al ristorante sul fiume, stringendo l’occhio mi vedi divorare spaghetti alle vongole. Non avevo mangiato da giorni, e non perché fossi a dieta. Gli facevo pietà.”

Iris Powell era arrivata a Roma da Pawtucket, nello Stato del Rhode Island, con una borsa di studio Fulbright. Non aveva troppe stelle agli occhi. Credeva che una laurea in architettura presa all’estero le sarebbe valso un lavoro con Mies van der Rohe a New York. Ma certe persone sentivano “architetta” e capivano “cubista” oppure “stelletta del cinema”. Nessuno assumeva donne architette, a parte Pipì Pasolini. 

Il cameriere portò delle bruschette, e un nettare colore del miele spremuto sulle pendici dell’Etna. Lei vi si buttò senza scomporre il rossetto. “Oh era il peggior cliente della storia. Non gliene fregava nulla di ciò che facevo, e non pagava mai. Credo che sapesse già che non ce l’avrebbe fatta a vedere i gloriosi risultati.”

“E Fellini?” le chiesi, da imbecille. Dimmi di tutta la gente famosa che hai conosciuto durante quell’alcione.

Per fortuna intervenne il cameriere con i calamari. Era bello guardare Iris che mangiava. Tra una delicata forchettata e l’altra chiese, “Ti hanno dato quel lavoro del parco giochi per cui hai tagliato la fila?”

“Non riuscivo a decidere se volevo guidare la Sofia Loren Volante o l’Antonioni-a-Gogò, quindi gli ho detto di no.”

Svuotò il bicchiere. “Ma va là. Volevano una guida anglofona per il set di Casanova che stanno ricostruendo. Ero anche in quel film, tra l’altro. Nella scena dell’orgia nel letto a castello sono nuda sotto la camicia da notte.”

La scena tornò a vita, per cangiarsi in uno spettacolo da baraccone. Un impresario scosta la tenda polverosa. “E qui abbiamo la bella dama che si è mostrata quasi in versione integrale per una manciata di secondi che non sono stati tagliati dal film.”

I turisti del mondo dello spettacolo si sarebbero dati gomitate per chiederle autografi, farle scatti col telefonino e darle una palpata a tradimento

I calamari erano spariti. “Lo so,” dissi, “ma gli ho detto comunque che non faceva per me.”

“Ora ti arrabbierai con me,” disse.

“Ah sì? Perché?”

“Voglio che tu scriva la mia autobiografia.”

“Non sono un ghost writer.”

“Va benissimo. Non sono ancora un fantasma.”

“Facciamo così: scriverò la tua storia se tu trasformi la mia stamberga in un posto dove un essere umano avrebbe voglia di vivere.”

Mi considerò a lungo, specialmente le mani. “Tratti duro.”

Mi lasciò pagare il conto senza fare complimenti. Si spendeva sempre il giusto, al Ciak. Non c’erano Maserati parcheggiati fuori, ma in compenso c’era un nuovo finto pub irlandese sul vicolo dove abitava lei.

 

Stabilimmo una routine di lavoro. Veniva da me e mi diceva dove imbiancare o colorare, quali mobili erano da scartare, e dove sistemare i massicci oggetti che mi costringeva a comprare per prendere il loro posto. Conosceva gli ultimi antiquari a buon mercato. Approvò alcuni quadri dei miei amici, ne condannò altri. Mi fece riposizionare la branda perché mirasse nella giusta direzione.

Quando andavo da lei, portavo fiori. Ci sistemavamo come per una sessione di psicanalisi. La sua storia conteneva svariati personaggi bidimensionali e alcuni episodi brillanti.

Quando le diedi la mia opinione, disse, “Ti toccherà usare la fantasia, tesoro.”

Quando aveva fatto il possibile per abbellire il mio bugigattolo, mi comprò un regalo. Aveva fatto incorniciare in ebano la foto di lei con Moravia e Pasolini, con un solenne passepartout color avorio o uovo di struzzo. Eccola, schiacciata permanente tra scrittori intellettuali.

“Quei due fetenti non mi invitarono ad accompagnarli in India,” disse. “Quindi non li voglio più nel mio bagno. Buon natale, baby.”

Era agosto.

“Bene. Allora buone feriae Augusti. O buon compleanno, chi se ne frega? Ma non venderla mai.”

Il retro della vecchia foto in bianco e nero reca le loro firme, e le loro dediche cariche di stima e devozione.

Quell’autunno il suo cuore smise di battere. Troppe notti di dolce vita a fumare Gitanes e bere vino bianco. Era stata sposata con un barone, per un periodo. Quel nobiluomo non aveva soldi, ma guidava una Morgan verde, ed era il massimo esperto in Italia sull’allevamento dei cani boxer. Quella storia durò poco. Il titolo lei non lo usò mai.

Il suo barone è nel sottofondo di alcune foto al Ciak. Indossa i tweed di suo nonno, abilmente modificati dal sarto di famiglia. Pelato, porta occhiali fondo di bottiglia mentre gli altri sfoggiano occhiali da sole quasi opachi.

Ora sono solo ombre.

Lasciò a me trovare un editore statunitense per ciò che chiamava il nostro libro, ma non ci sono riuscito. Il tasto “traduci” sulla mia macchina da scrivere si inceppò permanentemente. 

La figlia di un amico del college venne in visita a Roma. Da buon ziastro le diedi la mia stanzetta, e dormii sull’enorme chesterfield sul quale Iris aveva tanto insistito. Chloe non chiese chi fosse la bella donna nella foto sopra il letto, o chi fossero i due balordi che le stavano ai fianchi.

Voleva che la portassi a CinecittàLandia in Vespa. La lasciai guidare. L’Appia Antica è una via sconnessa, scomoda e piena di fantasmi. Le dissi che la tomba di Cecilia Metella era il palazzo dell’imperatore Vespasiano, e che una volta ci aveva vissuto Frank Sinatra. Non le suscitò alcuna reazione.

L’Otto Volante Fellini Casanova va su e giù, dentro e fuori, e a fine giro ti vengono sbattute in faccia due grosse tette. Divertente, lo confesso, ma dura troppo poco per dare soddisfazioni. 

La mia nipotastra era delusa anche da Il Ciak. Disse che le sembrava tutto ammuffito. I calamari alla griglia le fecero solo schifo.

Quindi la sera dopo andammo al Hard Rock Café per mangiare degli hamburger. Ci sono foto incorniciate sulle pareti anche lì. Guardandole, ci siamo resi conto che eravamo stati messi alla stessa tavola dove si erano seduti sia Brad Pitt che Leonardo di Caprio. Le ragazze in sottofondo a quelle foto miravano i giovani idoli con le stelle agli occhi. La nipotastra allungò il braccio col telefonino per immortalarci sotto le immagini.

Mi guardò impassibile quando mi offrii di autografare lo scatto.

Ciak!


Matthew Licht è fiorentino di adozione, ha pubblicato diversi libri in inglese e italiano. Sotto pseudonimo collabora a romanzi gialli. Per Stanza 251 scrive settimanalmente il blog bilingue Hotel Kranepool, sull'industria dell'ospitalità metafisica.

Matthew Licht