La ripugnante passione di Gene Vincent
Matthew Licht
Fotografia di Enrico Bianda
Pareva un sogno. Un lavoro al New York Times. Eppure la signora che mi spiegava le mansioni da svolgere era nata nel paese degli incubi.
"Serve un'altra persona a smistare e distribuire la posta in cronaca finanziaria," disse secca.
Stavo per obbiettare balbettando che non sapevo niente di economia e finanza, ma lei mi licenziò con un gesto della mano. Divamparono piccole fiamme dal cassetto dove depositò il mio curriculum.
Nella fossa postale del reparto Business stava un tipo dall'aspetto spiritato. Sulla targhetta di plastica spillata al suo grembiule blu c'era scritto Gene Vincent, ma chiaramente non c'entrava niente col ribelle rockabilly morto da decenni ed eternamente giovane.
Per evitare incomprensioni Gene disse che non ero il capo. Lui aveva un contratto a tempo indeterminato, io no. Era vero, c'era scritto così sulla tessera che sentivo ancora calda in tasca: Temporary. Avendo stabilito la gerarchia, aggiunse che se volevo un grembiule blu come il suo, li davano gratis alla dispensa aziendale. "Imbucare buste e pacchi è un lavoro sporco."
"Grazie," risposi, ma non andai. Gli dèi del giornalone mi stavano solo mettendo alla prova, sondando la mia ambizione di cronista. Dovevo tenermi la giacca e la cravatta.
Dopo qualche settimana ebbi la prima grande occasione.
Il centralinista della cronaca finanziaria, uno spettro grigio dal triste riporto, quando non stava rispondendo irritato alle telefonate in redazione parlava solo di teatro, che era la sua vera vita.
Dalla sua scrivania mi fece cenno di avvicinarmi. Sussurrò con tono di cospiratore che necessitava d'un paio d'ore di fuga per un importante provino. Gene Vincent, mormorò, non poteva in nessun caso essere la voce del giornale.
Appresi dopo che questi provini del centralinista consistevano nel fare il circuito dei cinemini porno della 42ma Strada, a un isolato dalla sede del Times. Ogni martedì cambiavano i video a gettoni. A quanto pare aveva tentato di buttare la ex moglie dal traghetto di Staten Island.
Gene Vincent, vedendosi raggirato, si infuriò. La sua rabbia era una gelida brace. Dagli occhioni contornati da croste irradiava rasoi arrugginiti mentre maneggiavo i telefoni come Mozart il pianoforte. Sulla scrivania si estendeva una piana di candida carta assorbente. La coprii di scarabocchi osceni con la biro.
Ero in bagno quando tornò il centralinista. Avevo fatto venire Gene al mio posto. Si prese lui la colpa dell'indecente Altamira.
Spruzzando saliva e muco, Gene gli aveva urlato che ero stato io.
Quando tornai, il centralinista chiese in tono grave e luttuoso se infatti avevo eseguito tutti quei nudi. Risposi che mi ero distratto.
"Ma pensa solo se una delle nostre colleghe l'avesse visto. Si sarebbe potuta offendere. Dobbiamo stare attentissimi."
Mi fermò la mano quando feci per strappare e appallottolare il foglio. "Li prendo io."
Gene si pentì poi di aver fatto la spia.
"Mi hai messo in un bel guaio," gli dissi, e raccontai di come ero stato messo in ginocchio davanti alla terribile Kapò delle risorse umane che, dopo avermi sgridato davanti a tutti, mi aveva preso a schiaffoni.
Non si scherzava molto, al Times. Gene si mise quasi a piangere.
Gli diedi una pacca sulla spalla e tra di noi si formò un tenue legame di miseria condivisa.
Facendo finta di lavorare, esploravo sempre più nel profondo il castello gotico della Gray Lady, come veniva chiamato allora il New York Times. Era un labirinto di archivi e stanze fantasma. Nella tipografia al sottosuolo lavorava una confraternita di italo-americani sordomuti. Solo loro potevano tollerare il baccano infernale delle stampatrici.
Passò il tempo. Nel camerino della posta finanziaria non pervennero soffiate che avrebbero portato alle dimissioni del Presidente.
Gene si rivelava sempre di più un'anima sensibile, ferita, offesa, alla disperata ricerca di un po' di tenerezza nella vita. Era anche un patetico sciattone pieno di infantili paranoie.
Viveva con la sorella maggiore e il cognato nel brutto ghetto bianco di Ozone Park. Fobico e nevrotico al punto di non poter venir al lavoro in metropolitana, spendeva buona parte del salario in tassì. Terrorizzato dai bagni comunali, tratteneva le scorie per tutta la giornata. Solo a casa trovava sollievo, almeno in quella forma.
Chiazze d'eczema gli coprivano le guance, il petto e le gonadi. La masturbazione compulsiva gli causava occhiaie, notti insonni e odio per sé stesso.
Un venerdì sera a fine turno lo invitai a bere con degli amici che lavoravano in zona. Dovette pensarci a lungo prima di accettare.
Entrò nel pub come se si aspettasse di essere mandato via in malo modo. Strinse la mano agli altri e si sedette per ascoltare le chiacchiere. Non riusciva a guardare in faccia la cameriera irlandese, ma tracannò la birra che lei gli portò come se non avesse mai fatto altro nella vita.
Poco dopo Gene si colorò di verde. Pendeva a babordo. Facendo finta di niente lo tirai su in piedi e lo trascinai al cesso.
"Starai meglio quando avrai finito di vomitare," gli dissi.
E infatti quando tornò al tavolo sembrava un altro. Non gli mancava dopotutto il senso dell'umorismo. Lanciava furtive occhiate verso una tavolata di giovani donne, lavoratrici, impiegatucce anche loro, che estraevano piacere e divertimento dalla vita. Una di loro gli strizzò l'occhio. Ridacchiarono tutte.
Non lo sapevo, ma Gene era in cura per la depressione. Gli venivano somministrati potenti psicofarmaci. Lo strizzacervelli convenzionato del Times avrebbe detto che era crudeltà fargli bere alcol, ma la trasformazione avvenne quando ebbe rigurgitato le pasticche. Non aveva mai fatto un aperitivo, lascia stare con degli amici. La birra gli piaceva e lo metteva di buon umore. Doveva solo capire il giusto dosaggio.
Lo invitai anche a delle feste.
Cominciava ad avere un aspetto migliore. Mangiando gli hamburger del brutto bar dove pranzavano i malcontenti e alcolisti del Times prese peso. Sembrava solido. Aveva le gote rosee. Gli si notavano meno le croste d'eczema.
La temibile direttrice delle risorse umane mi spostava sempre lateralmente e diceva di essere esasperata che non riuscivo a inserirmi da nessuna parte. Forse aveva ragione quando disse che avevo un brutto atteggiamento.
*
Un giorno Gene mi fermò in un corridoio del labirinto e mi passò una busta. Aveva, disse, intercettato una lettera inviata al redattore capo. Dovevo leggerla.
Era scritta a macchina, con molte cancellature a X, un saggio personale dal titolo Vecchio mani di cacca. Uno scemo ultracinquantenne descriveva le gioie di una prima paternità. I momenti più dolci, aveva scritto, erano quando cambiava i pannolini, sguazzando fino ai gomiti negli escrementi caldi.
Gene sghignazzò. "Credi che la pubblicheranno?"
L'aveva scritta lui.
Sempre più spesso quando ci incrociavamo tirava dal grembiule poesie, racconti, dialoghi teatrali, testi per canzoni. Senza dire niente a nessuno aveva smesso di inghiottire psicofarmaci e di andare dallo psichiatra. Non ce la faceva ancora a prendere la metropolitana, ma ogni giorno camminava per un po' prima di fermare un tassì, e scendeva sempre un po' più lontano dal giornale. Passava negozi, ristoranti, bar. Guardava gli uomini che riparano le strade, le montagnole di rifiuti insacchettati, i reietti che mendicano, gente a spasso vestita bene o male. La vita della metropoli gli era di ispirazione.
Scrisse degli anni di abuso e delle umiliazioni che aveva subìto da parte del cognato.
Aveva uno strano senso della vendetta. Mi indicò un redattore dai sopraccigli folti, ricurvo e obeso. "Lo odio, quello lì. Crede di essere il mio boss. Ha ficcato il naso nelle mie faccende personali. Ma l'ho conciato."
Gli aveva mandato per posta un paio di mutande insozzate.
*
Guardava più spesso le ragazze del Times. Gli scriveva poesie, ma si vergognava di consegnargliele. Aveva bisogno di qualcosa di più di una sembianza di vita sociale. Pensai di portarlo a uno dei tanti bordelli della zona di Times Square, ma non lo feci.
*
A una festa era presente una russa a cui dovevano piacere molto alcol e cocaina. Barcollando e sbraitando vagava da un uomo all'altro conferendo umidi baci, a caccia di inviti al cesso per spompinare e pippare.
Gene la notò. "Credi che con lei avrei qualche possibilità?" chiese.
Senza pensarci risposi che con una tipa così andava a colpo sicuro. Gli passai discretamente una bustina di roba e andai a riprendere da bere.
Poco dopo si scatenò il delirio. Gene Vincent sembrò volare dal bagno, inciampò e cadde a terra. La ex sovietica apparve alla soglia, urlando insulti. Gli sputò addosso e tornò dentro, sbattendo con violenza la porta.
Gene si tirò in piedi, riabbottonandosi come meglio poteva. Si guardò intorno come un animale in trappola e fuggì di corsa fuori nella notte.
Tornò spedito dallo strizzacervelli, che lo rimproverò per aver interrotto senza autorizzazione la terapia e per aver scelto di frequentare ubriaconi, tossicomani e ninfomani. Sul ricettario tracciò un nuovo percorso di tranquillanti, stabilizzatori d'umore e psicofarmaci per il paziente malato d'amore.
Gene si era preso una brutta cotta per la russa. Dava a sé stesso la colpa se lei l'aveva respinto. In uno degli infiniti angoli bui del Times, mi sussurrò che la sognava di notte.
Gene ingrassò, si gonfiò. Si vergognava, oppure aveva paura di andare a comprarsi dei vestiti più ampi. Mormorava da solo mentre andava e veniva dall'ufficio delle poste ubicato dentro lo stabile del giornale, spingendo un carrello di plastica grigio squalo, e anche quando ficcava buste e pacchi nei caselli dei giornalisti.
Gene spaventò una graziosa stagista. L'aveva solo guardata e quasi sicuramente nemmeno apposta. Ad occhi aperti sognava la russa della festa. La ragazza però se ne offese e fece rapporto. Gene subì un mònito dalla terrificante direttrice delle risorse umane.
Ne avevo subiti anch'io. Quella donna sembrava sempre voler staccarmi la testa con un morso, per poi inghiottire il resto di me schizzante sangue. Mentre veniva fatto a pezzi, Gene avrà provato un grasso orgasmo.
Dopo quel trattamento, non era più il caso di invitarlo a bere una birra dopo il turno.
Gene si convinse che i suoi guai erano dovuti alle radiazioni malefiche di vari redattori del giornale. Questi bisbigliavano tra di loro di aver ricevuto pacchi contenenti mutande insozzate. Non sapevano come comportarsi.
*
Venni licenziato per una risata insincera, diciamo sarcastica. C'era un particolare modo di sghignazzare da parte dei subordinati alle battute dei redattori. Era il richiamo di chi voleva fare carriera. Guardando in faccia un redattore che raccontava l'ultimo ilare aneddoto gli ho fatto il verso della risata New York Times.
Il giorno dopo mi ritrovai a spalla a spalla col corpulento Gene, che faceva finta di non conoscermi, oppure, drogato com'era, non mi riconosceva più.
Ma il declassamento non era solo un ulteriore dose di addestramento. Ero di nuovo disoccupato.
*
Anni dopo, a una festa, incrociai un ex collega del giornale. Gli chiesi che fine avesse fatto Gene Vincent. Fece una smorfia.
Gene era stato promosso. Era nel sindacato, non potevano licenziarlo, quindi l'hanno sbattuto dentro uno sgabuzzino lontano dagli occhi di tutti a smistare la posta elettronica. Computerizzazione vuol dire accesso a infinita pornografia.
Una giovane stagista era entrata per errore nella tana di Gene. Sullo schermo del suo computer si svolgeva una scena di sesso e lui si masturbava. Sorpreso, imbarazzato, le aveva lanciato uno sguardo per implorare comprensione, pietà e perdono. Lei l'aveva interpretato come uno stupro visuale.
Lo licenziarono in tronco. Non per abusi sessuali, ma per aver fatto uso inappropriato del computer durante il turno.
Non so cosa succede a una persona come Gene Vincent quando gli viene tolto il lavoro. Un piccolo esercito sporco e senza dimora girovaga sempre per le strade della metropoli e razzola nei bidoni dei rifiuti. Per lui, con tutte le sue fobie, vivere così era impossibile. Sarà finito in isolamento a casa della sorella, tra le grinfie del genero sadico. Magari prende un sussidio dall'ente psichiatrico statale, se ciò esiste. Nel suo inferno a Ozone Park, sulla sua obsoleta macchina da scrivere, compone lettere di minaccia a giornalisti e poesie d'amore per una donna che non le leggerebbe neanche se sapesse leggere.
Matthew Licht è fiorentino di adozione, ha pubblicato diversi libri in inglese e italiano. Per Stanza 251 scrive settimanalmente il blog bilingue Hotel Kranepool, sull'industria dell'ospitalità metafisica. Il suo romanzo North Hollywood Blue uscirà a breve per HST pubs.