Il croupier

Il testo che abbiamo il piacere di presentarvi trae origine (pur non facendone parte) dal libro La scommessa psichedelica (Quodlibet, 2020), una raccolta di saggi, scritti da importanti intellettuali italiani, molto diversi tra loro, sugli effetti che la psichedelia ha avuto ed ha sul nostro mondo; difatti, le pagine che seguono sono state scritte proprio dal curatore del suddetto volume, Federico di Vita – il nostro croupier, per l’appunto.

Si tratta di una sorta di rito di passaggio, un’assunzione di responsabilità, una maturazione.

Ed è anche un’escrescenza: come quando vediamo la capocchia di un fungo: oggi sappiamo che essa è legata a un più grande organismo sotterraneo, connesso a molte altre capocchie (quelli che noi identifichiamo come funghi ma che corrispondono esclusivamente alla parte emersa del più grande corpo micelico), come anche ai differenti esseri vegetali che formano la foresta, alberi e piante di ogni specie. In questo senso bisogna leggere e gustare questo breve scritto. E se avrete voglia di scoprire da dove si è generato sarete costretti a cercare nel libro La scommessa psichedelica nuove tracce, fonti bibliografiche ed esperienze di vita, che indichino la presenza dell’organismo fungino, del micelio e della sua abominevole complessità, splendente di luce oscura.

Andrea Cafarella

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Qualcuno mi ha additato come croupier. È successo dopo aver letto La scommessa psichedelica, dove questa figura è citata di sfuggita, appena due volte, in modo tale però – mi accorgo dalle reazioni – da attirare una certa attenzione. In effetti il personaggio appare in punti strategici, nella quarta di copertina e alla fine dell’introduzione, si palesa di sfuggita – come in due piccoli lampi – e in qualche modo resta impresso. È curioso però che alcuni lettori abbiano pensato di riconoscere me, soprattutto perché in una delle due citazioni chi parla, cioè io, ha a che fare col croupier, o meglio con un caramellaio che “compie un gesto da croupier”, in una proiezione dunque ancor più ectoplasmatica. È tutto qua:

Ora eccolo tenere con le gambe il tempo disintegrato della psytrance, mentre con un gesto da croupier mi allunga una caramella rossa.

In fondo al breve testo della quarta invece il croupier è scomodato in prima persona, a chiamarlo in causa è in qualche modo lo stesso titolo del volume, “scommessa” ci porta nel territorio dell’azzardo, si scommette nei casinò, si punta avendo a che fare con dei croupier:

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Oltre a queste [scoperte del Rinascimento psichedelico] c’è un vero e proprio universo da mappare, con un panorama tanto vario quanto imprevedibile, svelato il quale sarà più facile sedersi al tavolo del croupier e puntare consapevolmente. In fondo si tratta di una scommessa, no?

A evocarlo in questo punto è insomma l’arcipelago semantico pizzicato come una nota dal sostantivo presente nel titolo. Ma la verità è che non era affatto indispensabile ché ciò avvenisse e se il mazziere non ha saputo fare a meno di affacciarsi perfino nei paratesti del volume è per il rispetto che la sua figura sa incutermi. Ho detto “mazziere”, ma la vertigine dei sinonimi ci porta in territori ben più interessanti: ecco “dealer”, qualcuno con cui stringere un accordo, e poi ancora “fornitore”, “venditore” ma anche “trafficante”, e infine perfino “spacciatore”.

La prima volta che il croupier è venuto a visitarmi avevo appena fumato del DMT. Il DMT è il principio attivo che provoca gli effetti visionari nel decotto dell’Ayahuasca, ed è prodotto anche dal nostro cervello, forse nella ghiandola pineale – c’è chi ritiene che serva a innescare i sogni, o le percezioni ineffabili nelle fasi di premorte – come la nota luce in fondo al tunnel che riferisce di aver visto chi si sveglia da un coma. È curioso che una sostanza prodotta dal nostro organismo sia compresa nelle tabelle delle droghe più vietate, non vi pare? Anche perché, il fatto di produrla e trattenerla nei nostri tessuti, ne testimonia direi in modo piuttosto affidabile la sicurezza per quanto ci riguarda. Una battuta di Terence McKenna a tal proposito mi sembra la miglior chiosa possibile: la dimetiltriptamina, diceva lo scrittore, non è affatto pericolosa per la salute, a meno che uno non muoia dallo stupore. 

Comunque, in realtà io non amo poi molto il DMT, l’ho provato non più di una decina di volte, e non lo amo perché per assumerlo a dovere – con le pipette di vetro o i piccoli marchingegni artigianali con cui mi è capitato di farlo, e che invariabilmente mi catapultano in situazioni un po’ cyberpunk, tra lanicce di metallo e piccole bottigliette con la base forata da un trapano con punte da vetro – per assumerlo al meglio, dicevo, bisognerebbe dare almeno un paio di profondissime boccate a pieni polmoni. È una cosa che non mi riesce così bene, e dato che l’odore del DMT ricorda un po’ troppo quello di un’autorimessa andata in fiamme mi viene da tossire, e tossendo addio ampie boccate. Prevale la frustrazione, so che la sostanza potrebbe dare di più, so che esistono atomizzatori con cui dovrebbe essere più semplice testarla, ma non avendoli mai avuti tra le mani finisco per non cercarlo neppure, il DMT. Che tuttavia a volte trova me.

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Ha effetti caratteristici e rapidi, pochi secondi dopo averlo espulso dalla bocca ecco la realtà elettrizzarsi e sfrigolare, bisogna stendersi. A quel punto l’attesa è proiettata verso il breakthrough, non c’è controllo – si è in pura balia di una violenta sferzata psichedelica. Un’immensa parete di vetro cangiante e coloratissima ti piomba addosso, il rosone cosmico è fatto di dettagli geometrici perfettamente definiti: glifi, piccole losanghe, forme simmetriche, tutte pulsanti colori intensi e dotate di moti fulminei. A tratti, nella fase iniziale, ricorda le luminarie più gloriose delle feste patronali salentine, o anche le complesse decorazioni di alcune moschee persiane – la differenza è che stavolta le forme sono vive. Eccolo venirmi addosso, ho paura di romperlo, che ne sarà dei frammenti di vetro? Oltre il breakthrough potrebbero ricomporsi in figure di pura luce, immerse in qualche ordinaria attività di un mondo alieno. Un vecchio che fa un gesto con la mano, qualche essere bluastro che ti mostra un particolare, un dragone cinese che svolazza leggiadro sopra la stufa.

Quando vidi il croupier non andò esattamente così. La vetrata indicibile continuava a roteare di fronte a me e una figura apriva sportelli di nitore abbagliante in qualche punto della sua superficie. Era in smoking e rapidissimamente stendeva avanti a sé un mazzo di carte, come per invitarmi a giocare a Chemin de fer. Senza darmi il tempo di raccogliere la sfida ritraeva il mazzo e chiudeva lo sportello. Un attimo dopo ricompariva in un altro punto del rosone. Ecco da dove viene il croupier.

Nell’introduzione racconto di una mia visita a Gerusalemme, durante la quale fui colpito da un caramellaio del mercato di Mahane Yehuda, che dietro il suo banchetto di leccornie fosforescenti ballava al ritmo della psytrance. Il caramellaio era un uomo piccolo, ben oltre la cinquantina, e notare che dal suo banchino proveniva un genere musicale che associo automaticamente alla cultura psichedelica è stata una piccola rivelazione. Mi ha offerto una caramella rossa – una red pill – e non ho potuto che connetterlo simbolicamente al croupier. Sono dunque io il croupier? Non mi sembra, non in queste scene, eppure… Eppure guardando al complesso del libro, in relazione all’invito – alla scommessa – con cui insieme agli altri autori “sfido” il lettore, be’, credo di poter dire che in qualche misura è possibile confondermi con lui, è un’interpretazione legittima e del resto l’esortazione (almeno quella alla lettura) è più che sentita. E dunque, che altro dire? Faites vos jeux.

Federico di Vita

Federico di Vita